20 aprile 2011

Come parlare bene di Paolo Perrone


In edicola con 20centesimi

Nota per il lettore: l’articolo che segue è l’ammissione di un debole per Paolo Perrone che non può che essere inteso, più che a titolo personale, a vostro rischio e pericolo. Di più: è un outing che tenevo dentro e che, dopo i tanti incontri culturali e politici della scorsa settimana, doveva pur venire fuori in qualche modo. Sono felice che abbia scelto il meno doloroso, seppure non il più rapido.
Un latinista più forte di me direbbe che le mie considerazioni dovrebbero essere intese “ad usum Delphini”, perché epurate di tutti gli elementi scabrosi o comunque ritenuti inadatti a un lettore di giovane età o dotato di forte sensibilità. Ma io volentieri mi fingerei tale ai vostri occhi, se non fosse che l’espressione ricorderebbe troppo da vicino l’elegante titolo ittico-cetacico che l’opinione pubblica salentina attribuì al giovane Paolo, quando si trattò di designare un erede naturale per Adriana Poli Bortone. E la cosa creerebbe confusione.

Sono diverse notti, insomma, che la mia anima 20centesimale lotta contro quello che oggi chiamo un morbo ma che domani, chissà, ribattezzerò shakespearianamente vero e proprio amore.
Io non è che a Paolo Perrone non volessi bene di mio, questo sia chiaro e limpido come il suono della voce di Tito Schipa che fuoriesce, ogni mattina a mezzogiorno, dai megafoni che il sindaco di Lecce ha reso i simboli sonori della sua città. Vi dirò di più: se dovessimo considerare elementi psico-fisici, materiali, culturali o interpersonali, Perrone ha più cose in comune con me rispetto perfino alla Poli Bortone, che pure era stato uno dei primi cittadini di Lecce con cui avevo spartito più parte del mio background e del mio modo di sentire, a parte tutti quelli che l’hanno preceduta dacché respiro aria, fumo e particolato fra questo mare, questa terra e questi cantieri per basolati.

Tantissime cose ci uniscono. Potrei fare molti esempi. Ne faccio uno solo. Sia io che Paolo possediamo forte in noi la nozione che non sia necessariamente un malnato, ma solo un diversamente inserito chi non abbia idea di quali parole o meglio cenni bisogna adoperare, per ottenere un cappuccino con una forma di cuore sulla schiuma, in uno dei tre o quattro bar veramente alla moda del Salento. Sono un 20centesimale anomalo? Non sono abbastanza di sinistra? Devo farmi una colpa del fatto che giro il nostro territorio in cerca di sempre nuovi “Tic & Tribù”, in esclusiva per voi?
Ma non è stato mentre inseguivo un tic o una tribù - bensì materiale più sostanzioso per questo spazio “terzo” - che la settimana scorsa mi sono reso conto di un paio di cose su Paolo Perrone, di cui neanche il più acuto o ispirato editorialista del “Nuovo Quotidiano di Lecce” si era reso conto.

Tutto è cominciato con quell’espressione che mi ha fermato il cuore, usata da Paolo nel corso della presentazione dell’ultima fatica letterario di Marco Panara: “La malattia dell’Occidente”, al cospetto di Raffaele Fitto e di Enrico Letta, fra gli altri: “Il sistema bancario è stato un gigantesco gioco del ‘puzza a te’ in cui la puzza rimaneva sempre addosso al risparmiatore”. E’ stato un punto di non ritorno. Non c’è alcuna ironia in quello che scrivo.
Nessuna delle riflessioni che ho fatto sulle origini e le possibili regole di quel gioco mi stavano portando sulla strada giusta. Anche se ormai ero arrivato a pensare al “puzza a te” come a una disciplina che, nata fra i punkabbestia “light” del genere polacchine taroccate e cene all’Angiulinu, si fosse poi diffusa anche sulla sponda opposta. Chissà se, nell’appropriarsene, il centrodestra non l’avesse elevato a un gioco strategico di guerra alla Risiko in cui l’untore iniziale della prima puzza tenta poi di conquistare il mondo. Quanto mi ero sbagliato.

Ho capito in un solo colpo quanto mi ero sbagliato nel ravvedere ego da capo berlusconiano, o comunque tracce di berlusconismo deteriore, in certi gesti o dichiarazioni di Perrone. Ad esempio, prendete l’occasioni in cui fummo esclusi dalla rassegna stampa del Comune in cui siamo domiciliati. Nel corso di una seduta in aula consiliare, Perrone, negando l’acquisto di 20centesimi al consigliere che lo aveva chiesto, disse: “Se è solo un problema di soldi, ne possiamo parlare”. Noi in quella risposta vedemmo un berlusconismo infiltrato, paludato perfino nella buona borghesia leccese: una borghesia di tradizione e di prestigio, fatta di belle maniere e di ambiguità profonde, ma mai così scortese (lo dice anche l’adagio). Sbagliato, sbagliatissmo.
Pensiamo anche a una risposta che Perrone diede a una giornalista che faticava a stare dietro alle parole del critico d’arte Toti Carpentieri, mentre spiegava i contenuti della mostra di Marc Chagall organizzata al Carlo V: “Stai prendendo appunti?”.

Quelle frasi, inconcepibili per molti, erano avvisaglia di quello che avremmo compreso insieme al “puzza a te” di qualche settimana dopo. E cioè che l’unico germe del berlusconismo che abbia mai attecchito nell’organismo di Paolo Perrone non è che il migliore possibile: quello di una sovrapposizione della sfera privata e di quella pubblica, al punto da non riuscire a separare le frasi che pronuncerebbe in un contesto di pranzo con gli amici o rifugistica doposci da quelle che direbbe a una conferenza stampa. La differenza sta nel fatto che la vita privata di Berlusconi è un remake gore di Satyricon di Fellini. Quella di Perrone la stessa di molti cittadini leccesi di buon gusto ma dalla lingua lunga. Il che non è assolutamente un male, confrontato coi sofismi, le contraddizioni, le macchinazioni della politica da Machiavelli in poi. Le frasi fatte, il fintissimo fair play istituzionale che a volte lancia un’ombra di ipocrisia anche sulle votazioni parlamentari in cui ci sono meno lividi o ustionati gravi. Paolo Perrone non è mai sprezzante o maleducato, anzi. Sarebbe ripetere il vecchio errore ritenerlo tale. Paolo è sempre alla pari con chiunque si rapporti, che sia giornalista, collaboratore, privato cittadino. Gli parla come a un amico. Un amico che forse qualche volta sta per diventare un conoscente, ma pur sempre uno “dei suoi”. Già lo avverto, lo zoccolo duro della community di 20centesimi, che borbotterà, parafrasando Cetto La Qualunque, quel campione cinetelevisivo di ogni pregiudizio sul tipico rappresentante del centrodestra meridionale: “Bravo De Stefano, si comincia col dare la precedenza all'incrocio e si finisce che ti pigliano per ricchione. Tu stai cominciando a lodare Perrone per il ‘berlusconismo positivo’ (o come cacchio lo chiami) e finirà che ti piglieranno per fascistello (soprattutto se ti tagli una buona volta i capelli come si deve)”. Qui è evidente che c’è più di un mito da sfatare. Gli omosessuali non sono obbligatoriamente forniti, chiavi in mano, con una gentilezza d’animo preinstallata (e basta andare a fare un giro dalle parti delle pinete gallipoline versante Pizzo, per rendersene conto); nè tantomeno possiedono una predisposizione innata a una forma di rispetto particolare - comune alla categoria - delle norme del codice della strada. In verità, non c’è nessuna categoria.

Allo stesso modo chi, come me, non la pensa in politica come Perrone, non necessariamente non la può pensare al suo stesso modo su tanti piccoli dettagli che rendono Lecce un posto di centrodestra in cui vivere. Per questo spero con tutto il cuore che Paolo Perrone continui a tenere questa piccola grande lezione di politica permeabilità col suo mondo personale ancora per lunghi mesi di amministrazione della mia città.

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