30 dicembre 2010

Quasi un romanzo

In edicola con 20Centesimi


Nella prefazione a "Quasi un romanzo", Edoardo Winspeare, da cinematografaro convinto, ha saputo cogliere perfettamente il senso del lavoro letterario e fotografico di Federico Fuortes, contenuto nelle pagine di questo titolo, uscito per le Edizioni Panìco: "Il fascino del libro, come nei grandi classici, sta nell'introdurre il lettore in un universo sconosciuto, sorprendente, con l'autore nel ruolo di padrone di casa. E Fuortes lo fa in tutti i sensi: ci apre il portone de lu Palazzu, ci accompagna attraverso le stanze, per le vie del paese, nelle visite a Lecce, ci presenta i suoi parenti erigendo un piccolo monumento letterario al personaggio della nonna".
Non a caso Federico Fuortes (classe 1947, ma solo nella pipa d'ordinanza; fotografo, informatico sui generis; pilota di aerei; drammaturgo storico) è un altro di quei salentini eccezionali che vanno in giro per il mondo solo finché non capiscono che ci si può viaggiare più comodamente e speditamente anche stando seduti in un salottino di Giuliano di Lecce. Ferma restando, naturalmente, una conoscenza della Leuca-Maglie approfonditissima, come si confà a un grande raccordo diversamente rettilineo fra realtà e immaginazione, da imboccare ogni volta che si ha voglia di una di quelle partite (che siano trasferte o domestiche) fra sé e il resto del mondo che si chiamano narrazioni.

Una conoscenza come può esserla solo quella di uno che, quella strada, l'ha percorsa con ogni mezzo e con ogni parente, in una qualunque delle epoche in cui era progressivamente una terra di qualcuno (quasi tutti amici di famiglia); una terra di nessuno (preboom a scoppio ritardato) e una terra della rimebranza, che a uno può sembrare calda anche se è arsa, fertile anche se non frutta e comunque intensamente irrigata dalle suggestioni continue di quella parte dell'immaginazione che, solo per comodità, chiamiamo memoria.
"Quasi un romanzo" è una narrazione autobiografica talmente preziosa, comica, assurda da non poter essere accostata che a Proust o ai migliori epigoni italiani dell'autore della Recherche. Uno a caso, l'Alessandro Piperno delle migliori parti del suo unico libro funzionante, "Con le peggiori intenzioni", dopo l'uscita del quale l'autore romano è tornato ad essere quello che il pubblico italiano sembra chiedergli (e neanche troppo a gran voce): un altro miracolato - sebbene ricco di famiglia - di Antonio D'Orrico.

Non c'è nessun altro scrittore, probabilmente, che ha saputo "cantare" così, come se fossero parte di una piccola epica necessaria, prima ancora di un'elegia contingente, i rapporti di un "signurinu" (fosse parigino del Boulevard Haussmann o del Capo di Leuca) con sua nonna.  E' più a Proust che a ogni altro (molto più che a gli autori rievocati dallo stesso Winspeare, come Garcia Marquez o Tomasi di Lampedusa) dobbiamo far risalire le suggestioni che possono aver cambiato per sempre il rapporto col suo passato a un ragazzo i cui spostamenti in macchina fra un paesino e l'altro dell'infanzia parevano l'inizio e la fine del mondo.

Un "Narratore", però, più sano, più schietto, più chiaroscurale che impressionista, come fu ampiamente il suo predecessore d'Oltralpe. Anche più semplicemente voglioso di vivere che di scrivere e basta, come del resto ha quasi dannunzianamente saputo dimostrare Federico Fuortes, che oltre che a sapere raccontare in maniera indimenticabile gli investimenti borsistici di famiglia (resi vani dalle disattenzioni di matrone troppo interessate agli sceneggiati per controllare, quando richiesto, l'andamento dei titoli nei giornali radio), è in grado di far atterrare in tutta sicurezza anche qualcosa di più che un ultraleggero.
Come attesta il titolo stesso, l'opera è una fiction "à clef", in cui però la necessaria facciata di finzione dietro cui - da definizione - si nasconde l'autore è talmente sottile che può essere intravista anche dietro un solo sottilissimo strato di intonaco giulianese.
Ma, nonostante tutto questo, quello che prende di più non è il modo di ricordare di Fuortes, ma il modo di riportare tutto quello che ricorda alla realtà di oggi. E' qui il vero miracolo della sua penna. Per questo motivo, il tratto più toccante di tutto il libriccino, nonostante le tante digressioni strappalacrime o strapparisate, è la fiducia ingenua con la quale il volume stesso si affida al suo pubblico (che quasi non lo trova nelle librerie leccesi): "Reperibile anche alla Tabaccheria di Giuliano di Lecce".

17 dicembre 2010

Il popolo dei ciclisti di Lecce

In edicola con 20Centesimi

Il popolo dei ciclisti di Lecce città è uno dei più anomali e amabili nel panorama nazionale, sia da un punto di vista squisitamente pseudosociologico, sia da un punto di vista estetico. Come si può non amare le due categorie in due la mannaia sociocomportamentale separa i leccesi che inforcano la bicicletta per almeno due o tre volte alla settimana? Da una parte ci sono i più assidui. Quelli che concepiscono concretamente la bicicletta come un'alternativa agli altri mezzi di trasporto e, contemporaneamente, a un buon numero di tecniche di suicidio non indolore, nonché a quasi tutti gli anticoncezionali "indiretti". Quest'ultimo punto, sia per via della scomodità dei sellini che adoperano, sulle bici scassate, rigorosamente comunque da donna, che usano; sia per via del fatto che, una volta visti a bordo di mezzi come quelli che, stranamente, sembrano prediligere su tutti gli altri, sarà molto difficile per loro avere una vita sessuale normale. Questi ciclisti sono tutti o quasi chiaramente di sinistra o ritenuti tali, con qualche doverosa, commovente eccezione come il padre del Sottosegretario Mantovano, habitué di lunghe pedalate in sella al suo fedelissimo modello monomarcia (privo di cambio).

Gli altri, probabilmente, sono ancora più pazzi. Sono i ciclisti della domenica, ma non nel senso che pedalano poco e male, o non ne capiscono un cacchio di biciclette. No, questa è gente che litiga perché il compagno di sgambata di sempre, con cui ha condiviso ogni week end centinaia di chilometri - ci fosse la gelida manina della tramontana autunnale o il solleone delle grandi occasioni di blocco respiratorio - tutt'a un tratto compra e sfoggia un portaborraccia in fibra di carbonio, che pesa 25 grammi meno del loro, compromettendo per sempre la genuinità della loro rivalità. Sono quasi tutti di destra, anche se votano altrove, quasi per nascondere scaramanticamente al fisco le spese che fanno per aggiornare i telai delle loro bici, che chiamano con nomi di donna e con cui passano anche del tempo in salotto.

16 dicembre 2010

Pierluigi Bolognini, che spettacolo!

In edicola con 20centesimi

Che Pierluigi Bolognini sia il miglior fotografo italiano di architetture salentine non era in dubbio affatto. Se aveste bisogno di rinfrescarvi la memoria a riguardo, basta andare a pescare a caso fra i suoi volumi, categorizzati sotto la dizione "Salento", in una qualunque delle nostre librerie. Da che ha cominciato a impressionare pellicole e pubblico, Bolognini è la dimostrazione palese del fatto che anche per rappresentare l'infinito ci vuole angolazione (andate a rivedere qualche sua foto dedicata al mare o al rapporto fra terra e uno a scelta dei nostri due mari ufficiali, tutte sublimi simboli del rapporto fra conoscenza del territorio e pura ispirazione).

Per corollario, il secondo teorema fondamentale di Bolognini è che, soprattutto per cogliere un attimo, ci vuole molto tempo. Il suo metodo è un miscuglio saggio come la sua età ma agile come la sua capacità di essere sempre con l'obbiettivo dove c'è bisogno di essere, al momento giusto e col cavalletto giusto. Anche Francesca Ruppi, sua stretta collaboratrice (ai testi) nella sua ultima impresa editoriale, presentata ieri a Palazzo Adorno e poi alla Liberrima, scuote il capo fra l'ammirata e l'apprensiva davanti a certe realizzazioni, che ora sono luce su carta patinata, ma un giorno niente affatto lontano (ed è questo quello che è più preoccupante, anche se Bolognini è chiaramente un ragazzino) erano carne umana e sensori digitali su impalcatura, su cornicione, su tetto e Dio solo sa su quale trovata il maestro deve aver posato i piedi per immortalare - una volta di più - il profilo della banderuola "sacra" di Sant'Oronzo, che decora gli ultimissimi metri dei sessantotto di uno dei campanili più alti d'Europa e del mondo, incorniciata com'è, nella foto che fa da copertina a "Lecce, che spettacolo!".

Questa nuova opera kolossal (196 pagine di 27 per 27 cm, a 70 euro per i primi giorni promozionali, e in attesa di essere ristampata dopo Natale in edizione economica 16 per 16) è un secondo capitolo per un Bolognini anticonvenzionale, dopo il successo rinfrescante, tanto era acquatico e marittimo, di "Salento, che spettacolo!", uscito nei mesi scorsi. Mai come adesso la Aus Comunicazione, con questo formato king size e questa proposta, a un tempo, di monumentalità sbarazzina e di dettagli maestosi, è candidata per direttissima ad avere imbroccata la strenna natalizia "non utile" numero per il Natale 2010. Siamo pronti a scommettere che non ci sarà professionista minimamente in vista che non si ritroverà a dover mettere in circolo copie su copie riciclate di questo volume, tante ne riceverà dai suoi clienti.
Quello che emerge fin dal primo contatto colla sua ultima fatica è un nuovo Bolognini meno assoluto o aereo e più profondamente umano e leccese di quanto ricordavamo. Anche più "personale" e "disincantato" che in "Salento, che spettacolo!". Non dicevamo a caso "italiano", qualche riga più in su. L'essere stato Bolognini sempre attentissimo osservatore del Salento, fin nelle minuzie della decorazione archiettonica religiosa, come nelle vedute complessive di città e porti da prospettive insolite o impossibili, non ha potuto fare a meno di lasciarci qualche volta con l'amaro in bocca. Non di freddezza si trattava, ma di meritata aulicità. Era come se avessimo tanto voluto vedere un dietro le quinte di quella maestosità, un momento in cui il particolare diventava l'universale.

Ed eccoci abbondantemente accontentati. Non ci sono sole le vedute aeree di Villa Reale o della Torre del Parco, in questo libro. Le foto must della nuova tendenza sono davvero tante. Ma una ci ha straziato il cuore. E' ambientata nel bel mezzo di piazza Sant'Oronzo, altezza lupa. La silhouette con la mammifera madre della leccesità riposa, schiena contro schiena, contro un vero cane randagio, disposto in simmetria con le zampe dall'altra parte, ugualmente addormentato. Il dittico generato casualmente, ma perfettamente colto dall'obbiettivo, è fra la Lecce di razza che mostra tutta la sua storicità rilassata (sdraiata a prendere il fresco) e la Lecce randagia, abusiva, ma solo apparentemente brutta che spesso vorremmo fare finta di non vedere, eppure è comunque sempre presente ed è forse necessaria all'altra perché sembri così bella.

14 dicembre 2010

Il talento bipartito di Fulvio Spagnolo

In edicola con "20centesimi"

Quanti musicisti/pittori conoscete, abbastanza ricchi di famiglia e spericolati da finire con diverse ossa rotte per un fuoripista sulle Dolomiti, ma pure abbastanza sensibili e sognatori da spendere tutto il successivo periodo di riabilitazione (come un “notturno” dannunziano postmoderno, ma tutto di gioco anca bacino) a creare indefessamente - e forse ancora più spericolatamente - l’opera prima che neanche il talento più precoce (partito a 7 anni) lasciava presagire? Nella fattispecie, e in senso lato, non credo conosciate molte persone che riescano a concepire un album nel buio di un coma. E poi a perfezionarsi come cantautori, da autodidatti, nel giro di un solo anno. E perdipiù capaci, poi, di trarne un album spietatamente ironico ed autoironico, a partire dalla copertina, che raffigura una bella stampella in sovraimpressione, ad illustrare il titolo: “Sono io lo storpio”.


Fulvio Spagnolo da Carmiano, che ora è in ottima forma, è uno di quei personaggi che non fa compromessi con la realtà, amandola nella sua massima estensione e alla sua massima velocità. Per nostra fortuna, è mosso da uno spirito tutt’altro che futuristico. Fortuna ancora maggiore, Fulvio dipinge anche, fino a formare un dittico unico e irripetibile fra queste due anime della sua epressività. La prima, quella musicale e irriverente - sviluppata fin dalla più tenera età, ma sempre a ondate, almeno prima dell’incidente; l’altra, quella pittorica, colta e sottilissima, pur nella sua apparente oscenità, l’ha esercitata giusto fino alle soglie del tremendo incidente che lo bloccò a letto. Ditemi voi se queste due identità non sono una coppia perfetta, perfino sincronizzate. Il talento di Spagnolo per la vita accetta di tutto e soprattutto il passato e rielabora viaggi, esperienze, amori (per le cose, per i parenti, per le donne) come fa con Egon Schiele o Henri de Toulouse Lautrec - sue fonti pittoriche, per dirne due per tutte - quando dipinge.
Il suo primo album è composto da 10 tracce ed è pubblicato dall’etichetta veronese 1stPop, anche su iTunes (dove lo potete scaricare - legalmente - per 8,99 euro). Nei negozi di dischi di tutta Italia forse non lo troverete già in vetrina, ma se lo chiedete non vi costerà più di 10 euro. L’album è davvero interessante e alcune tracce recano impressi in chiarissime note una personalità rock/grunge e una capacità cantautorale notevolissima. A tutta birra e sempre a petto in fuori.


Eppure, vi stupirà la proporzione che componenti come memoria e amor filiale occupano, invece, nei quadri della stessa persona, che sarebbero a tecnica mista anche se fossero tutti solo olii su tela, tante sono le contaminazioni e i raggiri che contengono per solutori abili e non, amici di una vita e chissà quali pubblici andranno alle sue mostre. Nella fattispecie, comunque, Fulvio predilige l’acrilico. Dichiarazioni d’amore sentimentale a svariate figure materne giocano a rimpiattino con rivelazioni sulla corporeità di una nonna. Cassieri elegantissimi con fare da Secessione viennese non compromettono in alcun modo il fascino di alcune mucche a matita su cartoncino, che hanno un corpo cubico e portano sandali da bambina perbene. 

Ma allora, anche nella musica, che dovrebbe essere la parte più schizzata e “maleducata” della sua produzione, sono tutti raggiri i riferimenti al politicamente scorretto, al grezzo, al giovanilistico a tutti i costi. In realtà, una delle dimensioni più corretta in cui
cercare di comprendere il fascino e i fascini di questo autore è quella di una continua, sottile elegia del tempo perduto, anche se questo tempo perduto non sempre è l’autobiografia più storicamente corretta, com’è per tutti i felliniani, forse inconsapevoli, com’è questo carmianese dalla voce delicatamente accentata. L’elegia della stessa possibilità di immaginare. I suoi buoni amici dicono che se solo fosse un minimo più regolato e meno genio, sarebbe già una star. Quelli davvero ottimi dicono che, però, una star senza un vissuto come quello che solo la sregolatezza motoristica (non mancano ogni sorta di stunt automobilistici, al curriculum acrobatico di Fulvio) e il tarlo del suo genio onnivoro, nessuno può essere una vera star.

3 dicembre 2010

Chi è Lino Banksy, artista di streda

In edicola con 20Centesimi

Bisognava cercare dalle parti di Bari Vecchia per riuscire a trovare un provocatore dei provocatori come il misterioso Lino Banksy, l'unico artista di strada al mondo che lavora da casa. Com'è evidente dal nom de
plume utilizzato, questo fenomeno del web è figlio naturale di Lino Banfi e di Banksy, il più misterioso e ineffabile writer e stenciler che il mondo non conosca. Infatti, è sotto gli occhi di tutti che non si è mai fatto vedere. Almeno in questo, Lino Banksy gli è pari: è onnipresente sui profili Facebook dei pugliesi, ma neanche uno dei suoi fan può dire con certezza chi ci sia dietro la sua maschera cinefila e dialettofona. Tanto gusto per la segretezza ha portato addirittura il vero Banksy a girare un finto documentario sulla ricerca - del tutto infruttuosa - di se stesso e si è messo d'accordo con un museo per allestire una mostra delle sue opere senza che nessuno, neanche il più pettegolo dei custodi o curatori, potesse mai vederlo durante l'allestimento della stessa. Dove Banksy non si tira mai indietro è quando si tratta di creare metafore parietali della sua indignazione contro i soprusi e i vizi della società contemporanea. Citare in particolare una sua opera sarebbe fare un torto alla sua prolificità e genialità. Comunque, avrete visto riprodotta un po' ovunque l'immagine del "bombarolo pacifista" che - a volto copertissimo - compie il gesto di gettare una bottiglia incendiaria, che è in realtà un mazzo di fiori. Molto spesso, il suo gusto indulge al trompe l'œil, come nel caso, altrettanto celebre, della colf che solleva un lembo di palazzo per nascondervi al di sotto della sporcizia appena spazzata dalla strada, in un chiaro invito ai potenti al lavare in pubblico qualche panno sporco in più.
A Bristol - sua città natale - come a Londra e ovunque, gli immobili che sono "colpiti" da Banksy immediatamente vedono il loro valore commerciale levitare. In più, Banksy è stato il primo artista di strada ad essere ritenuto non soltanto - per entrambi i motivi suddetti: immobiliare e umanitari -  una specie di benefattore dai proprietari dei muri vandalizzati (quando i suoi lavori non vengono staccati come affreschi rinascimentali in pericolo, e musealizzati). Ma è stato anche il primo artista di strada ad essere seriamente restaurato.
Molti hanno avuto voglia di imitare una simile icona di contemporaneità. Ma solo Lino Bansky ha avuto il coraggio di sfotterla. Probabilmente è lungi da lui il desiderio di coglionella puro e semplice, volto a colpire un antiborghese che si vorrebbe imborghesito, o giù di lì. Anche perché Banksy, che io sappia, non si è imborghesito ancora e Lino si esprime troppo brillantemente per non averlo capito.
E' un po' come quando, nel "Favoloso Mondo di Amélie", la protagonista fa viaggiare un nano da giardino in giro per il mondo, ritraendolo in una serie di fotografie al cospetto di altrettanti significativi monumenti. Fatte le dovute proporzioni, qui si fa viaggiare non un nano, ma un piccolo gigante della baresità: Lino Banfi in persona. Il quale viaggia attraverso il fotomontaggio. Dunque, i lavori di Lino Banksy sono elaborazioni digitali di genio, in cui i volti dei protagonisti della sezione nordpugliese della commedia all'italiana di serie B, opportunamente "pop-artizzati", vengono calati nelle scenografie più cool dell'underground mondiale. Così, avviene che la perfetta colf di cui sopra, nell'atto stesso di simboleggiare la dialettica fra interni ed esterni della dimensione urbana di oggi, sia oggetto delle attenzione di un medico un po' porcellone, che mentre lei spazza decide di buttare le mani. Oppure (forse la più sublime trovata di tutte, perché tutta giocata sul registro della parodia della religiosità popolare), l'immagine in cui un bambino si inginocchia e prega tutto raccolto, dopo aver però passato il suo pennello sul muro di fronte, fino a far leggere "Oh Madonna benedetta dell'Incoroneta". Infine, come può non commuovere la bambina che sottende la sua altalena alla grandissima "A" rossa di Andria, posta alla base di un grattacielo newyorkese? Lino Banksy non smettere mai di controllare, a modo tuo, i controllori del malcostume e delle piccole e grandi violenze del mondo come lo conosciamo, e vorremmo rifarlo.

1 dicembre 2010

WikiLeaks alla salentina

In edicola con 20Centesimi

Oggi facciamo un gioco. Si chiama Fanta WikiLeaks alla salentina. Noi vi diamo una sorta di atout, poi voi continuate dove vi pare e quando vi pare. Si tratta di far finta che i superspioni di WikiLeaks sappiano che esista una regione storica chiamata Salento e che abbiano raccolto in un dossier supersegreto (fino ad ora) rapporti ufficiali ("embassy cables") di importanti diplomatici sui nostri esponenti politici locali. Se volete parteciparvi dalla pagina fan di 20Centesimi, che abbiamo aperto su Facebook anche per evenienze come questa, siete i benvenuti. Potete farlo tutti, grandi e piccini, politicanti o politicizzati, addetti ai lavori o semplici amatori. Ci vuole solo un po' di immaginazione ed essere stati almeno a una conferenza stampa a sfondo politico, fra Palazzo Carafa e Adorno. In alternativa, basta guardare anche distrattamente TeleRama. Guardare TeleRama con attenzione non solo non vi agevolerebbe nel gioco, ma potrebbe anche contribuire all'abbassamento delle vostre difese immunitarie.
E' inutile negarcelo a vicenda, sostenendo il contrario per una questione di orgoglio. Le rivelazioni su cosa ne pensano del nostro Premier i diplomatici americani, pubblicate da WikiLeaks, hanno deluso fortemente le nostre aspettative, quando abbiamo avuto l'annuncio dell'esistenza di siffatto materiale. In primo luogo, perché pensavamo che dei grand'uomini in forze alle ambasciate e ai consolati di una superpotenza anche culturale - personaggi destinati a condividere il desco col fior fiore dei salottieri europei - fossero in grado di produrre battute migliori su Silvio Berlusconi, rispetto a quanto non sappiamo già fare noi, o Umberto Bossi prima di ricredersi. In seconda analisi, una volta messo da parte lo humor, speravamo in materiale effettivamente scottante (sebbene la soglia dello scottante, nell'ultimo paio di anni, abituati come siamo alla qualità del tempo libero del nostro Primo Ministro, si sia inevitabilmente alzata). Insomma, saremmo tutti più falsi di Berlusconi quando dice di non sentirsi offeso dai materiali in questione, se ammettessimo di esserne stati completamente soddisfatti da quanto abbiamo letto sui quotidiani di ieri. Fanta WikiLeaks alla salentina serve anche a rifarci di questa situazione incresciosa.
"Fate attenzione, prima di tutto, all'unico maschio alpha dominante della politica salentina. Soprattutto da lui non accettate mai confidenze o consigli. Potrebbe facilmente suggerirvi sbagliato. Temetelo anche quando porta doni, anche se sono semplici cialde di caffè Valentino. Si chiama Adriana Poli Bortone e ha un nome da donna: un chiarissimo motivo in più per non fidarsi".
"Da un altro accettate pure quallo che vi offre, anche se difficilmente andrà oltre un caffè - almeno, espresso - al bar 300mila, dov'è di casa. Anche se ha l'aspetto di un omone troppo abbronzato per non essere stato addestrato al combattimento in chissà quale campo nordafricano, state tranquilli perché è completamente innocuo. Si fa chiamare Ugo Lisi e rientra nella categoria maschio omega".
"Un altro da cui vi dovete guardare è conosciuto col nome di Paolo Perrone. Una volta che cadrete nel tunnel della sua permalosità, siete diplomaticamente finiti, almeno a livello di quartiere Mazzini. Tutto comincia quando lo battete a tennis. Fate particolare attenzione a non vincere mai se avete bisogno di amnistia per le multe in centro. Ha solo un punto debole: l'assenza di una first lady degna di nota. Sarebbe il Sarkozy del Sud Italia, altrimenti, fighetto com'è. Nota bene: è famoso per essere convinto di essere il sindaco di Lecce".
"Il più pericoloso in un eventuale scontro corpo a corpo sembrerebbe un tale Eugenio Pisanò, convinto di essere il Presidente del Consiglio Comunale. Non sfigurerebbe vestito da gerarca di quello che qui in Italia hanno chiamato il fascismo. In realtà è un pezzo di pane".
"Nichi Vendola è un principino federiciano, colto e tutto compreso dal suo entourage, più poeta dei suoi poeti di corte".
"Al contrario Antonio Gabellone sembra provare particolare piacere a circondarsi di maleducati o piccoli medi incompetenti, come per un contrappasso rispetto alla sua proverbiale gentilezza. Consiglieremmo di provvedere con una squadra  a sua immagine e somiglianza, a partire da un certo Angelo Sirsi, suo sosia, già sceso in politica per altro, assessore presso il Comune di Campi Salentina".

26 novembre 2010

In diretta dalla Città del Libro

La Città del Libro 2010 è ufficialmente aperta intorno a noi. Una cerimonia alle 18 abbondanti, condotta dal quel conduttore di Tele Rama di nome Marco, che ha una voce da strillone dell'etere, l'ha aperta urlando - come per un show di varietà d'altri tempi - i primi ospiti politici presenti: Capone, Gabellone, Manca, Perrone, Palese. Per un caso da fortuito a felice, siamo gentilmenti ospitati dallo stand del nostro stampatore Martano: non c'è scrivania più libera e comoda di quella che ci indica, fra il bar e la nicchia di Tele Rama, questa mano amica. Vasco Rossi direbbe: "Piccolo spazio pubblicità". Il quale Martano, come ogni anno, propone una piccola esposizione di strumenti di lavoro d'epoca. Abituati come siamo agli aggeggi in pietra vanto delle varie case vinicole, vedere esposto un computer Macintosh della prima ora, sotto una teca di vetro, allieta il nostro portatile Apple come se fosse una macchina da corsa in un film della Pixar, che riconosce sua madre in una 500 perfettamente conservata. Battiamo insomma il nostro pezzo più a nostro agio che posando il MacBook sulle sole gambe, ma sempre ocn un certo imbarazzo, non sapendo se possiamo o meno attingere dalla macchina del caffè disponibile su un mobiletto, bypassando il costoso bar fieristico.
Il nostro intento sarebbe quello di raccontarvi, per filo e per segno, cosa succede intorno a noi, come in una versione in differita e su carta stampata del cosiddetto Live Tweeting, tanto mediaticamente sbandierato da SalentoWebTv, media partner della Fiera campiota. Che scemo di Campi non essendo, giustamente, ha affidato a una personalità d'eccezione tale Live Tweeting. Qui su 20 Centesimi lo faremo per i 4 giorni della Fiera, quindi non preoccupatevi se oggi ci limitiamo a un po' di "highlights". Non che non siamo stati impressionati positivamente dalla risposta pronta che ha avuto Rocco Palese, quando gli hanno chiesto che libro avrebbe consigliato a Nichi Vendola ("Qualunque libro sul Papa", è stata la risposta). Oppure, non che non ci faccia sempre tenerezza vedere Antonio Gabellone con la fascia da Presidente della Provincia. Fa tanto principe azzurro della politica locale. Anche quando parla da quella specie di nicchietta, scavata a mani nude da due cameramen di Tele Rama, giusto qualche ora fa.

Imprescindibili sono due grossi "bravo", però, che vanno urlati adesso, nel fare un bilancio della prima giornata, prima che chicche come queste possano essere sommerse dalle standing ovation che riceverà probabilmente una personalità del calibro di Raffaele Fitto (che parlerà oggi alle 17.00). O quella di Fini sabato pomeriggio. Il primo dei bravo è rivolto all'artista Cosimo Brunetti da Spoleto, autore del logo che accompagna il motto dell'edizione 2010 della Città del Libro: "Eroi di carta". E' una commovente rivisitazione del tema - eterno - del don Chisciotte, tanto bella da aver vinto il Concorso Logo Città del Libro 2010, con chissà che razza di giuria (con tutto il rispetto). Delicatissimo il modo che ha il logo di realizzare un personaggio dalla mente irrimediabilmente compromessa dall'amore per la letteratura, sottoforma di origami di carta. Ci piace pensare che almeno sia la carta di un romanzo d'epica cavalleresca.

Il secondo bravo è per l'immenso Franco Petrachi, "creative director" del progetto editoriale più ambizioso fra tutti quelli che potranno mai essere presentati a una Fiera del libro locale (e infatti ancora non è stato presentato, essendo un work in progress che si manifesta, qua e là per gli stand, sotto forma di piccoli totem informativi tutti da scoprire, o da condonare, quando non vengono tristemente demoliti e poi riassemblati altrove, per via dell'intervento di qualche addetto alla sicurezza). Il progetto - intitolato "The Best Salento's Factories and Professionals - Le storie sorprendenti dei migliori salentini" è per ora un librone dalla copertina stracarica di foto e di slogan, ma dalle pagine ancora simbolicamente bianche. Franco sta svolgendo la selezione dei protagonisti in giro per la sua terra: "su Lecce, Brindisi e Taranto". Mentre chiudiamo questo pezzo entusiasti di tanta bellezza editoriale, un bel vice-direttore del TG5 beve un prosecchino alla nostra scrivania. Tutto questo accade alla Città del Libro 2010.

20 novembre 2010

Puglia Ribelle al gran completo

In edicola con 20Centesimi

Ieri è inaugurata una mostra fotografica che tutti i giovani di sinistra di Lecce dovrebbero vedere, se non l'hanno già vista e rivista negli scatoloni dei ricordi dei loro padri o dei loro nonni, a secondo di cosa intendiate per "giovani" e "di sinistra", naturalmente. La mostra - proposta dalle Officine Culturali Ergot di Piazzetta Falconieri - si chiama "Puglia Ribelle" e celebra in fotografie d'epoca i 40 anni dalla nascita del Circolo Lenin di Ceglie Messapica, momento cardine della formazione e della successiva scesa in campo (quando scendere in campo poteva significare anche manifestare per strada) dei ragazzi e delle ragazze che hanno fatto la storia del post-comunismo pugliese e salentino.
E' grande il piacere di rilassarsi leggendo le ricche didascalia della mostra, una volta realizzato chiaramente che, a differenza di tante occasioni di autorappresentazione post-comunistica dei giovani d'oggi (magari al vicino Zei), in cui l'ansia da prestazione di non apparire abbastanza compagno o dirigente è effettivamente tanta, da Ergot si può essere se stessi - qualunque cosa si sia o si sia stati. In altre parole, c'è forte tolleranza nei confronti del diversamente compagno. Certo, essere stato un piccolo grande vecchio delle lotte operaie o bracciantili locali, magari riconoscibile in almeno un paio di foto esposte, aiuta eccome, a sistemarsi in un bel posticino d'onore nella considerazione dell'austero cassiere, che parla ininterrottamente con un uomo dal cappello strano. Eppure, fra gli scaffali ben forniti di stampa alternativa o solo non vendibile, non troviamo solo titoli come il pur attraente "Introduzione alla Bioarchitettura Feng-Shui" ("con interviste esclusive a bioarchitetti"), ma anche mercanzia decisamente più commerciabile, come ad esempio un fumetto ispirato alla biografia del grande Rino Gaetano, che non avevamo visto in nessun altra libreria delle nostre parti. Non mancano, anzi, neppure voci di catalogo-anatema, che farebbero rivoltare nell'Eskimo qualunque membro del Circolo Lenin di Ceglie Messapica degno di questo nome, come l'impronunciabile ad alta voce - eppure candidameste esposto su un tavolino - "Il mondo di Coco Chanel" di Karen Karbo, che ci domandiamo come possa essere finito qui, mentre dalla cassa ci guardano malissimo, come essendosi accorti di cosa stiamo guardando, e come se tutto non fosse altro che un tremendo trabocchetto per sgamare al volo, fra i convenuti non strettamente habitué di questo spazio, chi ci è e chi ci fa. Alcuni, magari anche comunisti a due pugni alzati (come nell'indimenticabile Mario Brega di un film di Verdone), cercano pertanto di nascondere il più possibile una moglie collusa coi padroni, mentre lei posa il cappotto di cashmere su un porta abiti messo a disposizione dall'Ergot, già sospetto di per sé.
E' stata una bella inaugurazione, ieri. Forse pochi giovani fuori, ma in compenso era delizioso osservare la stratificazione di tutti questi ricordi nelle parole e nelle impressioni che i figli e i nipoti dei protagonisti di questa stagione di lotta politica non possono fare a meno di scambiarsi, mentre  Si guarda una foto, si degusta un bicchiere di plastica, e ci si consola fra i ricordi di ribellione altrui, la vera ribellione che non torna, come non ne fanno più: le ribellioni che si dovrebbero clonare. Non si deve mai rispondere con lo sguardo - o con l'ostensione di alcuna reliquia anni '70 riadattata dalla sartina di fiducia - a qualcuno che ti squadra apertamente, con la faccia di uno che non voglia dire altro che: "Io sono più leninista di te". Piuttosto, strappa un sorriso l'incoscienza della bambina dalla pelle olivastra, che non ha alcun dubbio sul fatto che il suo nonno preferito - bellissimo, giovanissimo nella foto del quarto o quinto pannello - fosse più trotskista del tuo. Ma non te lo fa pesare e, anzi, ti chiede con dolcezza se il tuo, di nonno, non sia per caso quello che regge il megafono due pannelli più in là. Ironia della sorte, tuo nonno nel '71 era a giocare duro in qualche casinò municipale. Quindi, alla domanda, con un sorriso di circostanza stiamo zitti, e voi non dite niente al Gianni Turrisi in carne e baffi, che vi guarda bello come solo un giovane comunista vi sa guardare da una foto del '69 in bianco e nero fuori, ma con abbastanza colore dentro da riempire due o tre tavolozze dei ricordi. Fra tante emozioni, tenta di riportarci sulla terra il commento continuo - quasi una traccia audio extra di un dvd della memoria, come quelle che incidono i grandi registi dopo una rimasterizzazione di qualche loro capolavoro - di un addetto ai lavori del tempo che fu, che passeggia come noi fra le fotografie. Uno che, delle vicende rappresentate, vorrebbe mostrare di saperne più di tutti i presenti sotto i quarant'anni messi insieme: "Quista è l'unica manifestazione in cui c'eravamo tutti".

12 novembre 2010

L'esercito delle pornononne

In edicola con 20Centesimi

Sono a dir poco bizzarre le riflessioni che ci fanno venire in mente occasioni come il Convegno del Sindacato Pensionati della Cgil di Lecce, che si svolge oggi alle 9.30, alla presenza di un pubblico sceltissimo, sempre più raro di questi tempi: una platea di vere persone anziane autocertificate,
Non è colpa nostra se siamo a nostra volta vecchi abbastanza da aver avuto dei nonni veri, di quelli che viziano e che, all'occorrenza, quasi proteggono i nipoti dalla gioventù stessa dei loro genitori. Non è però colpa nostra neanche se siamo ancora abbastanza giovani da poter osservare con sguardo smaliziato la realtà neo-anziana che ci sta attorno. Staremo alle Cantelmo col cuore in mano, suggendo dalle labbra dei rappresentanti di quell'esercito sommerso (33mila pensionati iscritti solo nella Provincia di Lecce) tutta la speranza che nel 2010 ci possano essere ancora dei nonni, con dei problemi da nonni e, soprattutto, delle risoluzioni nonnesche di problemi da nonni.

Dei nonni, e non dei secondi genitori che, invece che viziare i nipoti come giustamente ha fatto qualunque generazione addietro, per secoli, li sgrida quando chiedono un gelato di troppo, per strada, in modo da allontanare il più accuratamente possibile il sospetto, nei passanti, che l'infante in questione possa essere generazionalmente altro rispetto a un loro figlio tardivo, venuto fuori in corner o per opera di uno spirito santo conosciuto al corso di tango.
Se oggi il giovane Holden fosse ancora giovane come lo era quella volta davanti al suo famoso specchio d'acqua newyorkese, sono certo che avrebbe ben altro tenore, o almeno un oggetto diverso, la sua domanda epocale ("Dove volano le anatre quando lo stagno di Central Park è gelato?"). Senza considerare gli stravolgimenti climatici che sono intercorsi nel frattempo - e le relative evoluzioni di specie degli uccelli acquatici conosciuti - la domanda che sorge più spontanea suona più o meno come: "Dove vanno le donne quando invecchiano?".


Non c'è più bisogno ormai di aver fatto le scuole a Manhattan per realizzare che la razza umana più pericolosamente a rischio d'estinzione non sono affatto le ragazze serie (come tutta una tradizione musicale pessimistica vorrebbe farci credere, da Marco Masini in poi); né tantomeno i fruttivendoli onesti (che sono già belli che andati, insieme con le fragole che sapevano di fragola); bensì un'altra: le vecchie di fatto. Per rendersene conto, basti fare un giro nel reparto cosmesi del Coin di piazza Mazzini a Lecce, o come diavolo si ostina a chiamare la "Standa" qualche responsabile marketing troppo fresco di master. Non più trentacinquenni bon ton che si atteggiano a signore con finta Chanel; non più cinquantenni fiere del loro primo taglio di capelli corto da anni, finalmente da donna piena e matura; e neanche una delle infinite sfumature e sottigliezze fra questi due poli. Solo una generazione monoblocco di diversamente giovani arranca fra gli scaffali, e guai a consigliare loro una sola crema per le rughe: ci pensano fratello botulino, e sorella Revitalift a pensare alle loro piccole imperfezioni della pelle. Tutto che vogliono è solo un profumo nuovo e una gonna al ginocchio, ma da infarto.
E' come se forse uguali e opposte trascinassero quei corpi e quelli delle loro nipotine più cresciutelle per le botteghe Intimissimi di mezza provincia, con un solo scopo: unire aspiranti veline e velone in una sola orrorifica fascia d'età indefinita, in cui alle sedicenni comincia già ad andare stretta la definizione di pornobambina (oh, incoscienti Milf delle loro bambole, troppo presto dismesse!), e alle sessantenni va invece benissimo - eccome - un'altra, freschissima voce del dizionario italiano del malcostume contemporaneo: quella della pornononna. Non c'è ragazza nonna leccese che conti che non cerchi disperatamente di rientrare in questa ambita categoria, almeno con la stessa forza e con la stessa convinzione con cui cerca di rientrare nei suoi jeans Replay da ragazza. E considerate che i Replay non hanno cominciato ad andare seriamente di moda prima di quindici anni fa.
Ogni donna, dopo una certa età, diventa l'autoritratto di se stessa da giovane continuamente ridipinto, continuament. I suoi pennelli, per carità, non si chiamano solo mascara Lancôme Oscillation, o tossina botulinica A, ma anche autostima, voglia di distinzione, o semplice amor proprio. Ma quel che è troppo è troppo.

Altrimenti, e lo diciamo con tutta l'onestà intellettuale possibile, non sarebbe così appagante partecipare a una riunione del Sindacato Pensionati Italiani, e rendersi conto che, forse, Lecce è ancora un paese per vecchi. Forza SPI CGIL e forza Celina Cesari.

9 novembre 2010

Michele Emiliano, il comunicatore corsaro e semi-abusivo

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Sembra che ci siano solo due modi di usare Facebook efficacemente, da parte di un politico: quello subdolo e quello molto subdolo. Altro conto sono le assenze o le assenze di fatto dai social network: la tendenza alla Fitto, per intenderci; ma non ce ne vogliamo occupare questa volta.

Il primo modo di essere su Facebook e di esserci con profitto è quello più classico che si possa immaginare. L'atteggiamento alla Nichi Vendola, per citarne solo il caso più eclatante. Lo seguono, spontaneamente, in moltissimi, da prima ancora che Nichi o alcuna fabbrica di esso sbarcasse sulla piattaforma. Si tratta di esponenti di primo piano di grandi partiti come di piccoli consiglieri di comune non egemone. L'atteggiamento in questione consiste nel fingere, nel simulare di essere altro da sé, qualcuno che non si é. Beninteso, non è affatto necessario risultare qualcosa di molto lontano dalla realtà. In qualche caso basta semplicemente essere un po' più educati, più preparati, più democratici e più professionali di quello che non si è. In pratica, dei politici. Solo i fuoriclasse, come Vendola appunto è, riescono ad accorciare drasticamente il gap fra quello che sono o quello per cui sono percepiti nella realtà e quello che vogliono essere su Facebook. Questo primo modo per usare Facebook da parte di un politico professionista, che sia in odore di candidatura, che sia già in campagna o che sia a un governo o a un'opposizione, resta il meno rischioso e il più efficace. 
 
Non è una pratica molto dissimile dal prolungare la dimensione comunicativa dell'addetto stampa, ma in un contesto stabilmente frequentato anche da chi ai comunicati stampa non può accedere. Quello che fanno questi politici una volta su Facebook non è neanche troppo dissimile da quello che svolge quotidianamente, con altrettanta dedizione e acceleratore schiacciato sulla finzione di sé, rispetto a un'altra categoria ben più vasta di utenti di Facebook: gli utenti di Facebook professionisti. Questo è la dimostrazione che Facebook ci ha reso progressivamente sempre più l'ufficio stampa scadente di noi stessi, cui vorremmo affidare temporaneamente solo il meglio della nostra vita, e cui finiamo per consegnare per sempre tutto il peggio di quello che siamo: delle persone che non si accettano e che si vogliono diverse. Sia rivolto ai politici come ai latin lover: non c'è una possibile bella copia di se stessi. 

Il secondo modo di accedere a Facebook e di sfruttarlo a fini politici è molto più rischioso, ma anche molto più soddisfacente. Si tratta di essere se stessi fino al punto di comunicarvi idee, concetti o battutine che neanche nel più agitato dei congressi di partito un politico si sognerebbe di pronunciare. Nonostante sia una modalità più rischiosa, facciamo attenzione, è anche un modo più codardo, alle volte. Una codardia che però ha già dimostrato più volte di pagare tantissimo, e il principe di questi furbi fifoni è proprio il sindaco di Bari, Michele Emiliano. Emiliano gestisce da sé questo spazio in cui comunica l'incomunicabile, protetto da una doppia credenza: che quello che compare su Facebook non sarà mai preso davvero altrettanto sul serio rispetto a una vera dichiarazione o a un comunicato stampa classico. La seconda credenza è che, per quanto gravi o sopra le righe possano essere effettivamente gli aggiornamenti che pubblica dal suo cellulare, saranno sempre più gravi o sopra le righe i commenti che riceveranno dagli utenti o dai diretti interessati.

Così, ogni volta che a Emiliano viene in mente una boutade come si deve (l'ultima è quella che riguarda l'assessore Guglielmo Minervini, accusato da Emiliano, su Facebook, di abusare della sua auto blu: "Non sono come gli assessori regionali ai Trasporti, che parcheggiano in doppia fila davanti alla sede di via Re David"), la risposta è quasi certa: ("Lo stile non è acqua. Ma le risse non mi attraggono", ha postato poco dopo lo stesso Minervini"). Ed è anche quasi certe che il post diventerà notizia. Anzi, una doppia notizia. Un repost, in pratica. Una volta per i suoi contenuti impubblicabili altrove, una volta perché sono stati pubblicati su un mezzo moderno e à la page come Facebook. Insomma, Emiliano, come comunicatore corsaro e semi-abusivo, avrebbe da dare lezioni perfino a Berlusconi.

2 novembre 2010

Silvio e Nichi: fra i due litiganti gode Tiziano Ferro

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Sembra proprio che tutto il putiferio mediatico che le ultime dichiarazioni del Presidente del Consiglio italiano in materia di ricchionaggine hanno suscitato, e che lo avrebbero affossato presso più di una potente loggia dormiente in pigiama di seta, stiano finendo per beneficiare soprattutto due personaggi, appartenenti da qualche settimana alla stessa lobby, ma apparentemente distanti anni luce l'uno dall'altro per formazione, stile di vita e aspirazioni personali. Naturalmente, stiamo parlando di Tiziano Ferro - il cantautore neogay di Latina - e di Nichi Vendola, il politico praticante di lungo corso.
L'annuncio di Silvio
Berlusconi, in verità, non ha sorpreso quasi nessuno. Men che meno i tipici frequentatori del Salone del Ciclo e del Motociclo di Milano-Rho, la location in cui le sue parole ancora riecheggiano: "Meglio guardare le ragazze che essere gay". Diciamo la verità, chi più e chi meno siamo tutti avidi appassionati dei b-movie hardcore in cui si è trasformata, da parecchi mesi, la stampa nazionale, e un po' ce lo aspettavano che il nostro uomo a Palazzo Chigi, se messo davanti a una scelta, pistola alla tempia, avrebbe preferito preferire le marocchine bone - sì, anche quelle che raccontano un po' di spacconate quando si tratta di dichiarare "a chi sono figlie" - alla tremenda minaccia fantasma rappresentata dall'omosessualità latente - che può coglierci tutti di sorpresa quando meno ce lo aspettiamo, con l'eccezione naturalmente dei tipici "topoi" del caso, come le saponette cadute negli spogliatoi di sport di squadra o i massaggi con olio Johnson in senso stretto.
Voi avete mai visto che gente gira a un Salone del Ciclo e del Motociclo di Milano-Rho? Se siete parecchio fortunati, ne conoscete il tipo migliore: il ceto impiegatizio della banlieu meneghina, quello dalla rateizzazione più veloce del Nord, quello che non mangia e non fa mangiare formaggini di marca per poter fare i 230 in tangenziale, con la sua Kawasaki verde, ogni volta che si può permettere la quantità di benzina - altrettanto verde - necessaria a farlo. Il peggiore non avete davvero bisogno di conoscerlo. Ora, Silvio Berlusconi è una macchina di consensi e se una cosa è in grado di fare - oltre a procurarsi il miglior tempo libero in circolazione dai tempi della romanità della decadenza - è dire alla gente quello che la gente vuole sentirsi dire. In particolare, riesce benissimo a dire alla gente di Milano-Rho quello che la gente di Milano-Rho vuole sentirsi dire. Non deve essere in alcun modo amletico neanche per loro cosa scegliere fra un week end di follie con una mulatta con mezzo albero genealogico da fuori e un ideale di vita passato a giocare alla cavallina in appartamenti dotati di carta da parati a pois riciclata. Eppure, la stampa nazionale, che non ha resistito a fare un caso per molto meno, non ha resistito neanche a porre la questione sul vero e proprio affronto: un attacco veemente ai diritti e alla dignità del popolo omosessuale. Dio, come si gode a fare l'avvocato del diavolo: chissà che non si avvicini a questa sensazione fare il Ghedini, con in più qualche milione di euro nel conto corrente. Il chiasso che ne è venuto fuori è stato senza precedenti, per una dichiarazione del Cavaliere che non riguardasse né i magistrati né i trans. Oppurtunamento corroborato da contributi video che, sia sulla home page del Corriere.it che su quella di Repubblica.it, hanno di certo fatto la differenza anche rispetto agli articoli online veri e propri. Centinaia di migliaia di click e due assisti di portata clamorosa. Uno, è naturalmente quello fatto a Vendola e alla sua più riuscita videolettera di sempre.
E' stata postata nelle prime ore del pomeriggio di ieri ed ha fatto subito il pieno dei link e dei commenti su Twitter e Facebook. Davvero espressioni come "il tempo delle barzellette è finito", "teatro della virilità", "titoli di coda malriusciti" sono destinate istantaneamente a passare alla storia della comunicazione politica in Italia. E' una delle prime volte che Vendola non è solo brillantissimo, ma è anche umano, ferito, quasi modesto. Il bello è che probabilmente questo assist non deriva neanche da uno di quelli errori opportunamente malcelati dal premier, uno di quelli in cui lascia trapelare i suoi messaggi più nefasti. E' probabile insomma che Berlusconi non volesse riferirsi direttamente al suo potenziale rivale, con le sue parole. Ma il fatto che Vendola sfrutti così bene tempistiche e strumenti, la dice lunga sulla decadenza del berlusconismo mediatico, e sull'affacciarsi di un nuovo sole almeno altrettanto paraculo.
E Tiziano Ferro che c'azzecca? Chiederete voi. Avete provato a vedere a chi fa riferimento il banner pubblicitario sta facendo manbassa di impressioni giusto sopra il logo testata del Corriere online?

31 ottobre 2010

Piccola fenomenologia del cazzaro teatrale salentino

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Pochi programmi cartacei di una serata musicale sono stati cari al povero cronista culturale come quello fortunatamente elargito al pubblico di “Ulysse dans le vagues” e “Anemos - Musiche dal mito”, giovedì, al Teatro Paisiello di Lecce. Abbiamo visto coi nostri occhi più e più serate salentine musicalmente impegnate. La nonchalance con cui il pubblico medio - che, di norma, a occasioni come queste viene trascinato per ricatto sessuale o per un errore nella prenotazione - reagisce al concetto stesso di “programma” della serata con orrore e raccapriccio. “Perché dovrei leggere su carta, e per giunta al buio, una descrizione il più possibile accurata e dettagliata della rottura di palle che sono costretto a sorbirmi?” - sembrano dire gli occhi disperati di tanti uomini di mezza età perfettamente vestiti, che scambiano con un po’ troppa disinvoltura la chiara possibilità di fare luce sulla serata che li aspetta (con annessa la possibilità di distrarsi legittimamente dalla stessa) con un raddoppiamento di qualcosa che è già tanto forzoso e poco entusiasmante. Una ridondanza della rottura di palle, insomma.
Non poteva purtroppo essere così per i tanti non addetti ai lavori pervenuti, loro malgrado, alla serata di ieri. Fortemente voluta dal Dipartimento di Filologia Classica e di Scienze Filosofiche dell’Università del Salento, che aveva messo a disposizione i suoi maggiori talenti francofoni, la proposta musicale del Coro Polifonico della stessa Università, in un certo senso, obbligava alla lettura matta e disperata di quei programmi, dettagliatissimi, curati per il IV Congresso Internazionale della “International Society for the study of Greek and Roman Music and its cultural heritage”. Dei veri e propri libretti: per giunta, in sole due lingue: greco antico a fronte e francese moderno ma non troppo. Sono bastati pochi minuti di recita perché l’immersione pressoché totale in quei testi passasse da semplice diversivo a unico modo per sopravvivere. Che quelle pagine fossero ovviamente incomprensibili, tanto nella versione originale greca, quanto in quella francese, non rendeva l’istinto di leggere meno necessario per le menti della platea e dei palchetti. Il fatto è questo. Giovedì non era soltanto una questione di difficoltà pura, come solo la traduzione francese di un agone aedico e monodico greco può esserlo(accompagnata con krar, flauto e qanoun, per giunta).
Il pubblico diviso a metà, quasi tranciato di netto, fra totalmente casuali e/o cazzari e totalmente secchioni, non rendeva possibile, nella pratica, alcuna delle tipiche attività che, in serate come questa, aiutano metà del pubblico ad ammazzare il tempo, o ad ammazzare l’altra metà, cioè le mogli professanti melomania che ce lo ha condotto. Mai si era vista a Lecce una simile quantità di “tecnici” della musica in platea. L’ansia da prestazione, già altissima prima ancora di prendere posto, è schizzata fino al livello degli affreschi tardo-settecenteschi dello splendido soffitto del teatro, non appena i “tecnici” hanno cominciato a parlare fra loro del programma. I termini come “parodo” e “si bemolle” si sprecavano; mentre addirittura i nomi di battesimo dei tenori del coro serpeggiavano, seminando il panico totale a partire dalle terze e quarte file. Una volta iniziato lo spettacolo, non è volata una mosca. Ma neanche nel buio indistinto dei palchetti, normalmente il regno incontrastato della distrazione e degli smartphone selvaggi, la situazione era di molto migliore. I secchioni più inclini a salire le scale avevano già preso posto in palchetti già occupati da cazzari. I quali, essendo cazzari, erano anche convinti di poter pretendere tutto per sé e la propria compagna melomane un palco intero. I secchioni, essendo secchioni, e sapendo perfettamente di trovarsi di fronte a una serata gratuita e imprenotabile, pretendevano giustamente di fare irruzione in uno di quei palchi solo semipieni.
La situazione salvava, in pratica, solo una categoria: gli ignoranti musicali abbastanza distinti e abbastanza ben vestiti da poter sembrare dei melomani a loro volta. I più cazzari di tutti. Ogni altra categoria, compreso il sottoscritto, è ancora sospesa in un limbo di erre mosce, suoni flautati e occhiatacce. Non mi ero mai sentito così inadeguato a una recita in francese accompagnata da qanoun in vita mia.

Cos'è davvero il Bunga Bunga

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Sono giorni di forte, intenso bunga bunga. Lo si avverte in Parlamento, dove non sembra si conosca miglior modo di annunciare l'esito di una votazione, quando va al contrario di quello che si sperava. Lo si apprende negli uffici dei commercialisti, ogni volta che un modello unico viene metaforicamente consegnato nell'altrettanto unico posto in cui procurerà il maggior dolore possibile al contribuente di turno. Lo sanno perfino negli spogliatoi dei migliori campetti sportivi leccesi, dove, giusto ieri, colti certamente dall'euforia di una vittoria a calcetto, e dallo spirito del tempo, è stato possibile osservare il fior fiore di professionisti agitare pelvicamente il proprio corpo nudo e affaticato, quasi sfidandosi l'un l'altro a singolar tenzone: "Bunga Bunga", in tutti e tre i casi, era il grido comune. Dapprima è cominciato in sordina, questo rumore ora assordante, come un tam tam (certo, parente stretto del bunga bunga; ma più diretto, frontale, meno subdolo e molto meno retroattivo); ma un tam che ha avuto successo: un tam tam che ha saputo brillantemente valicare i confini del suo villaggio di origine (se non africano, almeno brianzolo), per fare il suo trionfale ingresso  nell'immaginario degli scemi del villaggio globale. Che un altro fatto sia indice del successo che questa iterazione (due sole volte, la massima efficacia col minimo sforzo: parola d'ordine, ottimizzare) di suoni e di suggestioni sta avendo nel nostro paese, da quando è stato associato al personal branding involontario del nostro Presidente del Consiglio (in carica). Giusto ieri, perfino uno dei giornali attualmente meglio scritti d'Italia - la Stampa di Torino - nelle sole prime 3 pagine della sua edizione nazionale cita già in due fondamentali occasioni il bunghismo. La prima è opera del magistero umoristico di Massimo Gramellini che, con straordinaria presenza di spirito associa le esagerazioni che, anni fa, occupandosi di riportare dalla Napoli di Maradona le imprese tutt'altro che tecnicamente sportive del fuoriclasse argentino, ipotizzava che nessun altro meglio di Diego potesse impersonale l'aberrazione dei desideri, delle aspettative e dei sogno dell'italiano medio come lui. L'ammissione di essersi sbagliato è un colpo di scena giornalistico di una classe ineguagliabile.
Ma cosa è davvero il Bunga Bunga? Continuamo a chiedercelo ancora, anche adesso che abbiamo chiarito sufficientemente chi ci sia dietro l'operazione e tutti i giri di metafore e di applicazioni nella vita pratica che ne derivano. Non basta neanche Urban Dictionary, una vera e propria sorta di Accademia della Crusca per tutto ciò che sfugge ai dizionari di carta ed è colto perfettamente da quella particolare versione della "vita di strada" che è internet. Il fatto che questa fonte sia di respiro ampio e internazionale, già la dice lunga sulla straordinaria bravura che ha avuto quel grande brand manager di se stesso. Recita Urban Dictionary: "Bunga-bunga: stupro di gruppo anale e selvaggiamente brutale. Leggendaria punizione per la violazione di domicilio presso tribù africane non accreditate".
Il bunga bunga è fra noi, è ovunque. Il bunga bunga e nell'essere falso e cortese che ci dorme affianco, o che ci lavora alle spalle, nell'organigramma aziendale che ci compete. Bunga a bunga lavorativi, bunga a bunga solo ricreativi. Per uso personale e per smercio clandestino. Ma in realtà, per dirla tutta, forse il bunga bunga, è semplicemente la serendipity delle sòle prese col sorriso. Come la serendipity è la cosa non cercata che ci rende felici quando la troviamo, pur non cercandola, il bunga è la fregatura che ci dà piacere anche se ce l'aspettavamo perfettamente.
Due semplici paroline, essenziali come tutte quelle di derivazione onomatopeica, la cui ripetizione è già un ritmo, e non ancora un amplesso. Primo bunga: una promessa licenziosa di tribalità contemporanea, magari anche ritrovata con indossa una cravatta, una di quelle buona, una Marinella: mai abbastanza celebrato sostituto del pene italico. Secondo bunga: la promessa è mantenuta, il contatto c'è stato e cominciano le gioie e i dolori, bipartiti con saggezza e destrezza, fra bungatore e bungato, in parti uguali ma opposte: ogni onore e gloria al primo, tutta la sapida e quasi invocata umiliazione al secondo.
D'altronde, è sempre stato così e sempre sarà. Perché le regole della contemporaneità, del mercato (e, nella fattispecie, del mercato della politica), che conoscono vincitori
e vinti esattamente come un tempo era per i cacciatori più arditi e per le femmine che solo a loro era dato di procurarsi, devono differire da quelle della tribù?
Come sempre, non c'è miglior modo di mantenere intatta una tradizione che quello di trasformarla, attualizzarla, adattarla alle proprie esigenze. E' il grande vantaggio che hanno i classici sui moderni: si possono leggere sempre, e quindi sono sempre più contemporanei dei contemporanei.

26 ottobre 2010

Un pomeriggio in biblioteca 2.0

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Silenzio. Siamo nel cuore della Lecce che sta in silenzio, per raccontarvi - da perfetti insider - un pomeriggio come tanti, alla Biblioteca Provinciale Bernardini, località ex Convitto Palmieri. Un pomeriggio che, però, sempre come tanti altri, se non fossimo qui imboscati, fra un liceale sedicenne e un sedicente laureando in fisica, finirebbe per restare sommerso, fra i caffè di prima delle 15.30 e gli aperitivi di dopo le 20. I due momenti della giornata in cui gli abitanti di questo mondo parallelo tornano a sembianze umane e fanno girare l’economia. Sono queste le quattro ore e mezza in cui prende vita tutto un mondo per certi versi parallelo, per altri perfettamente contemporaneo; eppure comunque sospeso, come in una di quelle bellissime scene di Toy Story in cui un umano è appena uscito di casa e i giocattoli possono riprendere liberamente la loro conversazione.

Quando ci entriamo la prima volta, nella Bernardini vera e propria - non quella dei cessi marmorei da hotel 4 stelle, non quella delle macchinette automatiche col tè freddissimo a 90 centesimi, che lì sono buoni tutti a stare in silenzio, ammirati - i primi passi, come in ogni sala lettura stuccata che si rispetti, si muovono sempre con una certa circospezione. Prime edizioni alle pareti; busti in gesso di letterati morti da secoli e mai sentiti nominare; voglia di andarsene a casa o, almeno, di sporcare il meno possibile quei lucidi tavoli di legno massiccio (altro che la scrivania Galant dell’Ikea che abbiamo a casa). Paura di non essere all’altezza di tutte quelle facce pulite, così giovani eppure così impegnate nella fondamentale tesina che sembrano scrivere incessantemente, come se non ci fosse un domani, oltre l’orario di chiusura della sala. Di più: come se ci fosse un fuoco, una passione ardente fra i loro neuroni di un altro mondo, allenati da chissà quanti altri pomeriggi di riflessione e di elaborazione a produrre sui quei portatili interminabili documenti di Word, con tanto di chissà quali grafici e tabelle.
Ma è nel momento stesso in cui ci accomodiamo alla propria postazione, scortati a stretto giro da un Caronte della cultura (provinciale) che sembra non essere affatto entusiasta del documento di identità scaduto che abbiamo fornito all’atto dell’iscrizione - e cui abbiamo promesso di tornare l’indomani con una patente valida - che ci rendiamo conto che la realtà, dietro queste apparenze, è molto diversa. In verità, quello che avevamo temuto - cioè di essere scoperti con le mani sulla tastiera a scrivere questo pezzo, da secchioni violati come Diana da Atteone durante una delle sue cacce più private - è sostituito presto dalla paura di essere scoperti privi di un profilo Facebook dalla signorina rasta di fronte che, scoprendoci nell’atto di inserire una penna-modem nel nostro laptop, ci informa della possibilità di usufruire della rete lan della biblioteca, asportando l’apposito cavo dalla postazione di fianco alla nostra, attualmente disabitata. Simulare di simulare di studiare, grazie ai consigli della stessa signorina, che si chiama Laura e fa la barista acrobatica, diventa presto una seconda natura, per le nostre menti deformate dall’abitudine a scrivere di cultura a Lecce.


Con tutta la tecnologia a disposizione dei giovani e dei diversamente giovani che qui sono di casa, non c’è una sola tipologia di locale notturno con giochi a premi i cui meccanismi di gioco a premi o messaggeria da rimorchio non sia possibile riprodurre qui, fra queste stupende boiserie, restaurate dalla mano di amministratori pubblici illuminati, in grado di sopportare forti spese per il nostro arricchimento culturale; e governate da straordinari custodi, in grado di tollerare anche tre, quattro mesi di anagrafe fantasma. La classica chattata finto-clandestina fra due visitatori in realtà fidanzati da anni è solo l’inizio di una scoperta di perversioni e di aberrazioni della socialità online che questi hard disk e queste ram potrebbero raccontare per anni e anni di sbobinamento. Il massimo? Giocare ai mimi via webcam da un tavolo all’altro, rigorosamente dopo aver silenziato i microfoni. 


Sui diversamente giovani, in particolare, c’è da fare un’osservazione. Qualcuno fra loro è pure belloccio, dinoccolato, un perfetto dottorando in cerca di sedute comode per battere tesi forse reali. Uno sicuro di sé. Dovreste vedere la faccia che gli fanno le liceali che cerca di approcciare non facendo finta di chiedere loro il nome, per motivi di precedenti incontri fittizi al Cagliostro, e per poi aggiungerle al volo su Facebook. “Ma da dove viene questo vecchio?” - è la condanna che digitano sulla finestra di Msn un attimo dopo avergli dato del lei.

22 ottobre 2010

Perché Uccio Aloisi è stato importante

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Poche figure come quella di Uccio Aloisi rendono evidente il distacco che c'è fra quello che era la musica popolare salentina prima che avesse successo (etnomusicologicamente parlando, come direbbe il ghost writer di Massimo Alfarano) e la sua fusion incessante con tutto e il contrario di tutto. Ovvero, con quello che passa per la musica popolare salentina, ora che pare abbia successo.
Parlavamo proprio ieri di profumiere, in campo sessual-sentimentale, riferendoci ad esse come alle donne più infide possibili: quelle che vivono rapporti con gli uomini in forza della loro profumazione, e mai in funzione della loro essenza. Accenni di consensualità, forme di sensualità, vedere: quanto volete. Concludere, realizzare, toccare: neanche per sogno. In un mondo in cui le donne profumiere sono al potere o stanno per prenderlo definitivamente, mentre neanche ce ne rendiamo conto, non poteva che capitarci un'estetica della musica folk in cui gli accostamenti contano più delle identità; gli arrangiamenti più dei testi (che sono praticamente sempre gli stessi, svuotati come il vaso di terriccio di una piantina dimenticata); i gruppi più dei solisti, e via discorrendo, pizzicando e tarantando.

Per carità, da sempre un grande momento di espressione nelle arti ha dovuto essere contaminato e sminuzzato (vedi il manierismo in architettura o in pittura, dopo la prima stagione del Rinascimento), per poter essere isolato e finalmente compreso, una volta, però, morto. Ma qui non stiamo parlando, con tutto il dovuto rispetto, di grande pittura ad affresco da cappella papale; bensì di bozzetti di vita quotidiana sublimati, per qualche minuto di canto, in un'oralità intima e straziante. Massimo rispetto per tutti i concertoni della Notte della Taranta presenti, passati e addivenire. Serate frutto di selezioni ardite e prestigiose, fonte di divertimenti i cui ricordi durano vite e, in qualche caso, ne producono di nuove. Resta il fatto però che fra tutti quei musici polistrumentisti di chissà dove e di chissà come, fino a qualche ora fa, solo uno non suonava che un unico strumento. Questo era Aloisi. La cosa, invece di sembrarci un limite, ci sembrava una grande occasione. Il fatto che poi quello strumento unico e irripetibile fosse la sua anima irrimediabilmente bruciata dalla fatica, e indissolubilmente unita a qualunque altro elemento con cui la volesse o dovesse accompagnarla - che fosse un tamburello del '700 prestato da un museo, ma percosso da una mano callosa e ferita; o un'intera formazione di grido come come i Buena Vista Social Club, quasi ignorati dal maestro in una indimenticabile serata - non faceva che aumentare il nostro stupore, di trovarci un simile ulivo (come giustamente lo ha definito Massimo Bray) in una selva di tanti rampicanti.
Così, è quantomeno strano che i giornali locali debbano celebrare in Uccio Aloisi il cantore del tarantismo solo perché ha effettivamente partecipato e mattato - a suo modo schivo e quasi dissacratorio - diversi concertoni melpignanesi. In realtà, non c'è niente di più meno tarantato dell'essenza di Uccio Aloisi: autore di un canto popolare talmente autobiografico che non ammette cover, e talmente universale che può essere anche solo salentino, senza alcun bisogno di contaminazioni e fusion, per essere valorizzato. Un canto che sgorga da un'esperienza di lavoro faticosa e anacronistica è fatto così: o lo fa uno del 1928 o il resto sono pizzicarelle.

L'estetica dell'Aloisi al pieno delle sue possibilità è brutale, fatta com'è di testi che prendono forma come arnesi di "fatia", che si affilano solo dove serve che taglino, senza nulla concedere alla forma, e dunque alla melodia. Un'estetica così solo un modo conosceva di essere se stessa, quando veniva accostata a "tutto il resto": andare il più possibile fuori tempo. Non a caso, il canto del cigno di questo stornellatore rude ma funzionale come un muretto a secco, eppure generoso come una fontanella di piazza - è stato quest'estate. E' stato l'aver suonato lo stesso, anche se avrebbe dovuto restare dietro le quinte, seguendo i consigli dei medici. Si è fatto issare a spalla sul palco fra gli applausi che a un certo punto sono quasi venuti meno, perché le mani di parecchie signore avevano cominciato ad essere seriamente impegnate a tergere lacrime. L'ultimo modo sostenibile di andare fuori tempo.
Aloisi condivideva la sua esperienza di vita autentica con qualunque pubblico, senza guardare in faccia neanche alle prime file di ognuna delle migliaia di serate che avrà fatto nella sua carriera non sfolgorante, ma molto luminosa.

21 ottobre 2010

Dove si fa la spesa nobile nel Salento

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Lo speciale dedicato a Fulco Ruffo di Calabria, pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno di ieri, ci ha rivelato un nobiluomo ormai salentino d'adozione, e fortemente simpatizzante col concetto di mercatino. E' evidente in ogni singola segnalazione culinaria o balnerare, da parte di Fulco, che il settore in sé della distribuzione di massa non faccia al caso suo. Ma due interrogativi si sono posti, allora, alla cortese attenzione dei lettori più attenti del supplemento meridionalista del più importante quotidiano italiano. Il primo è tutto incentrato sul perché mai Fulco Ruffo di Calabria viva a Lecce. Il problema, come saprà benissimo il fruttivendolo andranese, patuense o gallipolino che si sia imbattutto almeno una volta nel bel principe brizzolato  (e abbia anche seguito almeno l'edizione de L'Isola dei famosi cui egli partecipò) non è affatto di facile soluzione. Il secondo dubbio, sul cui scioglimento possiamo contare su basi empiriche più salde, riguarda dove faccia la spesa il resto dei nobiluomini salentini, e dove la maggior parte dei nuovi ricchi che ne scimmiottano costantemente le - supposte - abitudini. Diciamo supposte, se non altro, perché è cosa nota ormai quanto il luogo in cui Fulco preferisce fare il bagno (il porticciolo di Tricase), che un nuovo ricco potrà sempre solo intravedere attraverso una sorta di velo di Maya le abitudini dei nobili sopravvissuti alle grandi guerre e alla piccola e media impresa. Che quel velo di Maya sia intessuto in gran parte di articoli come questo del Corriere del Mezzogiorno, che si aggiunge a una lunga sfilza di rubriche di Chiarella D'Ambrogio, ben archiviata nelle nostre menti, e pubblicata nella stessa sede, ecco, questa è un'altra storia. Quello che conta qui è dove i veri nobili salentini comprano le vivande che consumano sul loro desco, e dove i neo ricchi se le fanno comprare.
E arriva la prima sorpresa. Il vero nobile salentino, soprattutto se diversamente decaduto, ma poco intenzionato a consumare merce scaduta (magari ereditata insieme ai mobili), fa la spesa al discount. Il grosso almeno, il clou degli acquisti settimanali in grado di foraggiare anche 4, 5 o 6 discendenti in odore di sempre maggiori impegni a calcetto. Le materie prime che contano: soprattutto pasta, ortaggi e verdura. Qualche numero in meno per quanto riguarda le carni rosse; qualche sospiro di sollievo davanti a carni bianche che, dopo settimane di dubbi e incertezze, finalmente sembrano fresche come si deve. E' possibile avvistarne a frotte, di questi piccoli e medi nobili, che si salutano in fila alla cassa dell'Eurospin di viale Rossini, angolo via Cicolella. Sono in fila esattamente come i nomadi di mezza età che, da prima ancora che i nobili in questione potessero anche solo pensare di mettere piede in un Eurospin, o anche solo immaginare il concetto di Eurospin, già erano l'aristocrazia dei discount e sapevano perfettamente come forare una confezione di savoiardi Dolciando & Dolciando, in modo da poterne assaggiare anzitempo il prezioso contenuto. I nobili scorgono i nomadi, si approntano al solito diniego d'elemosina, come avviene per le strade, quando poi si accorgono che la mano protesa dallo zingaro non è vuota, ma propone un euro in moneta da infilare nel nobile destriero che l'aristocratico governa, nelle fattezza di un carrello di colore blu come il suo sangue. Lo zingaro ha cambiato due da cinquanta centesimi al nobile e il nostro vecchio mondo è già un po' più nuovo.
Tutto all'opposto per il nuovo ricco. Il nuovo ricco, innanzitutto, è persuaso che sia suo preciso dovere somigliare il più possibile a uno zotico. Cosa in cui peraltro riesce benissimo. Il suo obbiettivo è essere il più rurale possibile, il che ha, per ora, avuto solo l'effetto di renderlo il meno urbano sostenibile. La sua casa deve sapere di mungitura, anche se è un attico che dà sulla villa comunale. L'importante, e pare che cerchi anche di insegnarlo ai suoi figli, che vanno tutti a cavallo e non sentono ragioni quando la biada non è quella che cercano, è che tutto sembri il più "naturale" possibile. E' per questo che i nuovi ricchi comprano chili di prodotti di agricoltura biologica a chilometro zero, che perlopiù poi abbandonano in frighi a sei ante per settimane, prima di cercare di fare restituire loro la vita da un cuoco cingalese, particolarmente in vena di sperimentazioni. Li comprano da siti web appositi, oppure dalle botteghe di via Leuca cui quei siti fanno capo, facendo un grande annusare pesche già quasi marce e scegliendole fra dieci perfette, con grande savoir faire. Fra una spesa e l'altra, mangiano solo merendine fuori pasto (comprate dagli stessi filippini) e al ristorante a cena. Anche così il nostro vecchio mondo si rinnova.

20 ottobre 2010

Sapessi com'è strano andare a un reality da Martano

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In tempi di crisi come questi, si dice anche dal barbiere che il lavoro dobbiamo inventarcelo. Magari, mentre se ne scopa il pavimento per arrotondare. Pare che lo stesso possa dirsi anche degli ammortizzatori sociali e chi avverta la responsabilità di doverci ricorrere. In sempre più casi, però, non è l'azienda per cui lavoravamo o lavoreremmo, a dover provvedere al "sostegno del reddito dei dipendenti che hanno appena perso il lavoro".
Prendiamo il caso di Francesca Giaccari, concorrente del Grande Fratello 11, l'attuale edizione del fratello maggiore di tutti i reality show (mentre pare, sempre di più, che il padre ne sia "Chi l'ha visto?"). La più "desiderata della casa", secondo un sondaggio realizzato a Galatina da sua madre, presenta alcune caratteristiche che la rendono emblematica dal punto di vista mediatico. Da una parte, non è la prima persona di bell'aspetto e di sesso femminile che deve fingersi intellettualmente e culturalmente peggiore di quanto non sia in realtà, per poter essere accettata da una community. In questo caso, non il privé del Malè, né tantomeno la relativaa pista Pachanga; bensì svariati milioni di telespettatori del prime time nazionale italiano.
Così, Francesca, probabilmente di comune accordo con un autore Endemol giovane e brillante, magari dotato di laurea in filosofia, master in Business Administration e fidanzata sudamericana, ha deciso di esordire con un "Comu sciamu?", appena entrata nella casa delle case televisive. La stessa casa che ha saputo prendere tristemente il posto di quella Vianello, da prima ancora che Raimondo avvertisse il primo segno grave, pace all'anima sua. Si rivolgeva a un gruppo di suoi coetanei, o giù di lì (in qualche caso anche un po' su, ma si sa, nessuno mente meglio sull'età di un concorrente di tv verità). Qualcuno romano, qualcuno lombardo, qualche altro di solo Dio sa dove. Non tutti hanno avuto l'onore di capire che volesse dire con quella domanda ma, appena Francesca ha cominciato a dare lezioni di pizzica, tutti hanno capito da dove venisse, autonomia linguistica più, autonomia linguistica meno. Il resto, è stato, fino ad oggi, solo un lungo, ininterrotto susseguirsi di "comparema, ce sta 'uardi, nu' suntu cazzi toi".
Così, tu, giovane donna centrosalentina, che hai fatto la valletta in una qualche vita precedente al Premio Barocco, sfoderando il migliore dei tuoi sorrisi e una perfetta dizione italiana - forgiata dopo anni ed anni di imitazione delle mamme delle tue compagne di classe altolocate - devi sbarcare il lunario. Parlando nel dialetto che hai passato una vita a giurare di non conoscere, ma che ti torna alla bocca nel momento del bisogno. Hai pure partecipato a Miss Italia (risultando Miss Eleganza Puglia 2004, sia detto con un certo moto di orgoglio). Eppure, il lavoro come attrice non protagonista accanto a Scamarcio non è venuto. Perlomeno, non ti è caduto addosso come grandine a Collemeto, come nei giorni in cui papà non si è fidato di accompagnarti in macchina al corso di portamento, a Nardò, dalla signora Raffaella che è tanto brava e poi è un amore come spiega. E' qui che interviene la televisione, o meglio lo stato, o meglio ancora un'aberrata e mostruosa figlia bastarda delle due entità.
Allora, ecco anche come le due cose si correlano. Come vanno a nozze il finto dialetto e il riciclo di capitale umano, in questa terra in cui ci stanno per togliere anche i pomodori da tirare in faccia, a dei clown che non ci fanno più ridere da un pezzo. Il Grande Fratello, come la televisione stessa, come il governo centrale che rappresenta, non sono altro che un sublime sistema di ammortizzazione sociale, rispetto a quello che sono le possibilità occupazionali che il governo stesso non riesce o non vuole darci. E' una cloaca di reflussi ormai statisticamente certi, anche provvisti di una certa rappresentativià regionale, a mo' di parlamentino delle deformità e dei vizi del nostro Belpaese.
Passiamo una vita a studiare e a coltivare i nostri talenti (Francesca è laureata in scienze politiche e canta nei locali salentini da una vita, è insomma una ragazza non priva di pregi). Non troviamo lavoro o perdiamo quello che avevamo? Non dobbiamo preoccuparci: il sistema provvederà a darci di che vivere, chiedendoci in cambio di mostrare a tutti gli altri ogni nostro difetto, incertezza o paura.

16 ottobre 2010

Magdi Allam, lo stranissimo Cristiano

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L'opera più autobiografica del diversamente copto Magdi Cristiano Allam non poteva che essere presentata a Lecce col massimo entusiasmo da parte di Alfredo Mantovano e dei suoi grandi elettori. Il foyer del Teatro Politeama Greco, ieri sera alle 18, era stracolmo del centinaio di poltroncine rosse che, di norma, sono il solo arredamento dei suoi palchi (siamo nell'epoca dei reality, non dimentichiamolo). Una decisone lungi da ogni passibilità di vanagloria da parte di Alessandra Pizzi. La mente e le mèches dietro questo importante evento, infatti, hanno preferito non concedere nulla al rischio di alopecie di posti vuoti nella platea del teatro. La cosa si è rivelata saggia, perché la presenza di una tale personalità - per giunta, a Lecce per la prima volta, dopo un fugace passaggio novolese qualche mese fa - meritava qualcosa di più delle sole due o tre file di carabinieri in piedi, dietro il centinaio di fedelissimi (di Mantovano, di Gesù, o di entrambi).
L'evento era presentato da Gianni Donno (già consulente della Commissione Mitrokhin, oltre che stimato Professore Ordinario di Storia contemporanea presso l'Università del Salento e autore di numerose pubblicazioni e articoli, fra cui "L'ultima speranza per il Sud si chiama Lega"). Dopo i saluti di rito da parte di Simona Manca, Assessore alla Cultura della Provincia di Lecce e padrona di casa, Donno ha rubato solo qualche minuto del tempo riservato a Magdi e a Cristiano per fare presente all'uditorio il suo concetto di "islamicamente corretto" e quanto esso sia superato e improprio. Qualche istante dell'introduzione è stato dedicato anche a qualche difficoltà nel distinguere fra l'apparato musivo della Cattedrale di Otranto come esempio da manuale di incontro iconologico fra cultura orientale e occidentale, e lo stesso come incontro fra Cristianità e Islam (cosa che farebbe rivoltare don Grazio Gianfreda nella tomba).
Il libro di Allam, "Europa Cristiana libera", racconta gli anni più culturalmente e spiritualmente sofferti della sua vita: al centro di tutto, il passaggio da una lunga carriera nel giornalismo professionale, culminata con la vice-direzione del Corriere della Sera, alla decisione di fondare un nuovo partito, “Protagonisti Per l’Europa Cristiana”. Il volume, edito da Mondadori (18 euro) contiene dei passi toccanti e vibranti, non c'è che dire. Anche le sue parole di ieri lo sono, eccome.
Solo, le cose più belle che dice questo stranissimo cristiano (se al livello di "solo" strano restava saldamente fermo il giornalista televisivo Antonio Socci, che qualcuno ricorderà), sono anche le più laiche che pronuncia. E' un bel sottoinsieme, in cui vorremmo tanto che la parte principale della discussione restasse. Come se non ci fosse bisogno di troppa religiosità per dire delle verità civili e soprattutto umane che sono alla base del nostro esistere. Utopia? Resta il fatto che quando Magdi afferma: "I dialoghi devono essere prima fra persone, che fra religiosi", sento troppo più entusiasmo da parte dei pochi atei presenti in sala, che dai numerari dell'Opus Dei al loro fianco.
Il fatto è che troppe volte, ascoltando le parole di Cristiano, ci viene alla mente l'attributo "liturgico" (se non "pretesco"). Cito: "Il 22 marzo 2008, durante la Veglia pasquale, ho ricevuto il Battesimo, la Cresima e l’Eucaristia in San Pietro da papa Benedetto XVI". Per dirlo con parole che sono una mia libera interpretazione del pensiero di Allam stesso, davanti a tanto apparato cristiano-retorico, in cuor mio, non vorrei altro che "Europa Cristiana libera" fosse il libro speciale che, di fatto, è, non perché scritto da un giornalista e poi politico egiziano naturalizzato italiano (cresciuto da musulmano, ma educato in scuole cattoliche da sempre), ma perché scritto da un uomo speciale.
Facendo dunque un bilancio senza troppi peli sulla lingua, a parte un Magdi libero pensatore e grandissimo oratore, ma un po' prigioniero di Cristiano (o, comunque, più prigioniero di Cristiano che della sua ingente scorta, con cui sembra vivere un impressionante rapporto di simbiosi), la "sfida" di ieri sera è stata ampiamente vinta da Simona Manca. Non è la prima volta che questo accade. E' un copione ormai già scritto ogni volta che, negli ultimi mesi, a Lecce si invita qualcuno a dire qualcosa di culturalmente rilevante e questi non è Francesco Guccini, o comunque un musicista in odore di taranta. Resta da vedere se la cosa avvenga così puntualmente più per merito di Simona o per demerito dei suoi colleghi amministratori.

15 ottobre 2010

AbcDonna: il femminile alla salentina

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Ad ABCDonna, il mensile diretto dalla brillante Ilaria Lia, non manca davvero
niente per essere, da una parte, un piccolo caso editoriale di rivista al femminile che piace davvero anche alle donne informate, e non solo agli uomini "rattusi". Dall'altra, un prodotto del giornalismo salentino di settore che sa farsi apprezzare dal pubblico e dai pubblicitari.
Le sue pagine diversamente patinate, infatti, si ispirano solo con una certa licenza poetica alla stampa nazionale del settore, ma con un bel tocco di concretezza in più. Ai loro consigli di ricette dietetiche, ad esempio, si affiancano sempre solide inserzioni pubblicitarie con bruschette giganti in primo piano. Spostandoci dal culinario allo psicologico, agli eterei consigli sentimentali alla Mina su Vanity Fair - grazie ai quali non ci risulta ancora si sia risolto alcun rapporto, a distanza o di corna che fosse - Ilaria e la sua squadra sostituiscono, con entusiasmo e voglia di fare, risposte estremamente più pragmatiche di quelle della ghost writer saccentella di una cantante leggendaria, ma attualmente non in grado di passare attraverso numerosi tipi di infisso, e figuriamoci attraverso il vaglio dell'autocritica. Che poi le dette risposte, soprattutto le più pratiche, possano corrispondere, nel 90% dei casi, a un "negati pure al telefono finché non ce l'hai all'amo, e poi tira, tira, tira, tanto non si spezza", non è per via di una limitazione delle nostre pregevoli giornaliste, bensì a causa delle mancanze strutturali del genere maschile italiano contemporaneo.
In verità, dovrebbe essere cosa nota che, nei femminili nazionali egemoni, da Io Donna e gli altri inserti settimanali dei maggiori quotidiani, fino ai mensili belli e impossibili come Amica e compagnia bella, si valica facilmente una certa misura, oltre la quale i suddetti periodici non vengono comprati più per una reale esigenza di informazione. Oltre una certa patinatura, oltre un certo numero di pubblicità di lingerie, oltre una precisa quantità di stronzate, quelle riviste vengono comprate o da donne che non potranno mai permettersi quei vestiti o quelle creme, o da uomini che non potranno mai permettersi le donne che le portano.
E' un po' come quando, in agosto, tradite il vostro barbiere di città con quello del mare (ci sono amori estivi anche in settori come il taglio dei capelli), e vi rendete conto di come la sua bottega sia tempestata di numeri di "Yacht and Sailing", e via dicendo. No, quelle barche non tutti i barbieri possono permettersele: ma sfogliando quelle pagine, ogni volta, è un po' come se tutto fosse possibile.
Ecco, è questo che ci piace particolarmente di ABCDonna: si può essere estremamente femminili senza ammorbare discettando solo di boutique; o dichiarando immancabilmente di non mangiare altro che sushi, salvo poi essere scoperte sotto i riflettori esterni di Pizzicotto con mezza taglia di tartufo e patate. Per inverso, non è detto che per essere accettate come pari - eppure sempre ineffabilmente, inevitabilmente differenti - le nostre amate donne debbano per forza di cose mostrare i loro difetti o le loro esagerazioni. Le riviste al femminile sono lette (e scritte) anche dai noi maschi? Soprattutto, sono sfruttate soprattutto dai maschi? ABCdonna sceglie molto meglio il suo target: donne che vogliono seriamente essere informate su quello che di meglio c'è in giro per loro (e al miglior prezzo), con uno sguardo deciso sul locale; e uomini che vogliono lo stesso meglio per le loro compagne, a loro insaputa, o con un pizzico di complicità in più.
Con salentine così, diventa inutile fingere di saper stare al gioco dello shopping, anche duranti i primi giorni di corteggiamento. E' un'emozione scoprire che valori e stili come questi possano essere condensati in 70 pagine di ottima carta.
Tutto bello e tutto interessante, dunque. Fino a che non arriva la mazzata, dobbiamo dirlo, che prende la forma dei due cognomi di Guglielmo Forges Davanzati. "Ah" - uno dice a se stesso - "finalmente leggo qualcosa di semplice di Forges Davanzati". Sul Quotidiano è più forte di noi: si comincia, e si finisce prima della metà della prima colonna. Fra l'impaginazione fashion e la bella foto della direttrice, uno si aspetta il miracolo. E invece no.
Per il resto, brava, bravissima Ilaria Lia. In un'epoca di sperimentazioni e trasgressioni come questa, continua a mostrarci quanto siamo vicini e quanto siamo lontani.

Paolo Perrone all'Accademia Chigiana

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Un gentilissimo invito della Confcommercio di Siena è stato inoltrato al Comune di Lecce, e colto al volo da Paolo Perrone. Insieme a rappresentanze delle città di Siena stessa e di Venezia, Lecce è sollecitata a partecipare a un dibattito sul turismo nelle città d'arte. Per la precisione, il tema è come il connubio fra turismo e città d'arte dovrebbe essere gestito, "per garantire, da un lato, gli aspetti più strettamente economici, dall'altro il mantenimento e la fruibilità di monumenti, palazzi, chiese e altri elementi del patrimonio delle città". "Alla faccia del bicarbonato di sodio", direbbe, a questo punto, un amministratore locale con una discreta cultura cinematografica e anche solo una leggera infarinatura di senso del realismo. Una tematica difficilissima - che rasenta a tratti la vera e propria patata bollente - da affrontare su un terreno ancora più irto di pericoli, per il nostro buon Perrone (unico rappresentante del Comune di Lecce presente nell'occasione): la prestigiosissima, parrucconissima Accademia Chigiana di Musica. Una location che, probabilmente, metterebbe soggezione anche al più poetico e immaginifico dei governatori regionali italiani; figuriamoci a un Dottore Commercialista di livello comunale, per quanto ex-bocconiano (o, anzi, proprio perché bocconiano).
Fatto sta che, complice la moderazione del critico d'arte, esteta e alsaziano Philippe Daverio, anche Perrone oggi prenderà parte a una discussione che coinvolgerà i suoi colleghi amministratori Carla Rey (assessore al "Commercio, alla Qualità Urbana e alla Tutela del Consumatore" del Comune di Venezia) e Maurizio Cenni, sindaco di Siena. Corredano il tutto le presenze, più o meno minacciose, di esponenti del gotha della cultura toscana e, dulcis in fundo (inteso anche come "fondi" economici), Paolo Corchia di Federalberghi, il presidente del Gruppo Monte dei Paschi di Siena Giuseppe Mussari (venerato in loco come un re taumaturgo) e il non meno sacrale ed esigente - anche in fatto di umiliazioni fantozziane al suo cospetto - Gabriello Mancini, presidente della Fondazione Monte dei Paschi. Quando l'antica "Sala della Musica" si aprirà sui relatori, ecco, diversi sindaci di municipi candidabili al ruolo di "città d'arte" saranno contenti di essere stati scartati a priori dalla terna.
Il fatto è che il sindaco Cenni avrà principalmente il compito di fare gli onori di casa. Tutti gli oneri graviteranno su Perrone e Rey. La quale, sfoderando tutta la sua parlantina meritocratica, da profondo nord-est; nonché il fatto di aver aperto più e più musei del suo territorio (fra cui: Accademia, Ca’ Rezzonico, Museo Storico Navale, Museo Diocesano, Fondazione Cini) e, da non dimenticare, non avendo mai nominato Massimo Alfarano Assessore alla Cultura del suo Comune di appartenenza, avrà probabilmente un canale di accesso priviegiato all'attenzione dell'uditorio.
Insomma, le circostanze, probabilmente, vorranno qualche proposta organizzativa in più, da parte di Perrone, rispetto al solito vivacchiare di rendita e lasciar fare all'Azienda di Promozione Turistica. Qui, sia detto per inciso, in un pezzo in cui vogliamo più divertirvi che annoiarvi, è in gioco la sostenibilità stessa di un turismo di massa prossimo venturo nella nostra città di riferimento (chè, per ora, non ne abbiamo altre). Un turismo che non va certo organizzato col preservativo, non sia mai ci prendiamo qualche malattia; ma non può nemmeno essere lasciato alla mercè dei tour operator oligopolisti dei nostri meravigliosi cortili e facciate. Quando ce ne saranno, ovviamente, di tour operator davvero interessati al nostro sfruttamento e alla nostra lenta, ma inarrestabile, corruzione architettonica e sociale.
Ora, però, lasciateci il tempo e lo spazio di un'invocazione alla entità - neopagana o paleocristiana che sia - che protegge gli amministratori comunali dalla Cultura (Dio scampi sempre loro da ogni forma di accumulo o di ritenzione del sapere), non ci resta che credere fermamente nella possibilità che vengano scattate e pubblicate quante più foto possibile, di questo incontro fra Perrone e i parrucconi senesi. Speriamo solo che non porti sfiga l'atto stesso di aver rivolto la presente invocazione. Per quanto riguarda il sindaco stesso, si sa, non credendo nell'esistenza di 20Centesimi, sarebbe molto dura trattenerlo dal pubblicare le foto, con un articolo uscito in una sede come questa.

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