28 settembre 2010
Tutti a Lecce per fare la Festa alla Polizia
Sebbene possa sembrare incredibile, in una città in cui la figura del poliziotto di quartiere ha sempre avuto poco senso (giacché è già da tempo consolidata quella del poliziotto di condominio); nella serata di ieri la presenza delle forze di Polizia per le vie di Lecce è stata ancora più gaia e massiccia del solito.
Anche a distanza di centinaia di metri dai due punti focali della Festa Nazionale della Polizia (piazza Duomo e il Castello Carlo V), le camionette erano tantissime e l'atmosfera generale - fra moltitudini di poliziotte in gonna e di altri veicoli storici in bella mostra - era molto serena e festosa. Talmente serena e festosa che perfino in via Trinchese, in cui diversi agenti in tradizionale atteggiamento antisommossa erano fermi all'altezza del Teatro Apollo, la gente che, altrettanto tradizionalmente, ne avrebbe temuto anche un cenno di saluto, ieri sera tendeva felice le mani verso quegli scudi trasparenti. Senza sospettare minimamente che, in realtà, quegli agenti erano davvero antisommossa.
La Festa della Polizia è un rito itinerante da diversi anni. Questo è l'anno di Lecce e tutto è stato organizzato alla perfezione. Si celebra San Michele Arcangelo, il protettore della Polizia, che decora le pareti delle migliori questure italiane sottoforma di uno spirito del bene che infilza - con una spada ben affilata in una mano, e una bilancia nell'altra - un diavolone che non vi dico.
Gli stand di piazza Sant'Oronzo risplendono già da domenica di autorità, velocità e vari gadget (preferibilmente color blu). Ma il bello veniva ieri: alle 18 la benedizione impartita dall'Arcivescovo di Lecce Domenico D'Ambrosio, nel corso di una messa solenne che ha visto la partecipazione del ministro leghista dell'Interno Roberto Maroni; nonché quella del Capo della Polizia dal cognome più esplicativo di sempre: Antonio Manganelli. Non mancava neanche un leccese d'eccezione: Alfredo Mantovano, sottosegretario nello stesso ministero di Maroni.
Le parole pronunciate da Manganelli, nell'occasione dell'incontro coi cittadini di Lecce, avvenuto poco prima della funzione, sono state inequivocabili: "Queste sono occasioni di incontro che ci permettono di ricordare le quotidiane soddisfazioni, i successi, le gioie, e anche i dolori profondi che vive un'istituzione complessa come la nostra, fatta da oltre 100 mila persone che sono quotidianamente esposte al pericolo. Perciò amo dire che queste non sono feste, ma occasioni di incontro".
Al termine della cerimonia religiosa, ecco quella civile, ancora più partecipata, della traslazione dei corpi del ministro e delle centinaia di cariche dello Stato presenti (sindaci e principali assessori di qualunque paese della Provincia di Lecce, Brindisi e Taranto, inclusi). La quale traslazione avviene, per forza di cose, in maniera del tutto autonoma e semovente; salvo essere seguita a passo d'uomo da una serie di autoblu che, nell'occasione, molti monelli di strada, ormai anziani, hanno inavvertitamente scambiato per "li funerali di qualche personaggio importante della televisione". Non si era mai visto, all'altezza dell'immane ingorgo creatosi all'incrocio fra via Trinchese e via XXV Luglio, un tale spettacolo di uniformi e divise. Quelle, più sobrie, degli alti funzionari di Polizia erano accompagnate da quelle multicolore degli ufficiali di Marina, dell'Esercito e dell'Aviazione. Neanche un bambino al di sopra dei 12 anni di età, in quei fatidici momenti in cui il corteo faceva il suo ingresso nell'antico Castello di Carlo V, sognava altro futuro se non nelle Forze dell'Ordine, per sé e per i suoi amichetti del cuore (che, nel frattempo, si azzuffavano per un McFlurry qualche metro più in là).
I più composti, una volta tanto, sono senza dubbio i giornalisti. Capeggiati dall'ottimo ed elegantissimo Marcello Favale.
In ogni caso, al di là delle considerazioni che, certamente, i meno sensibili al problema della pubblica sicurezza potranno fare sull'evento di ieri, quello che conta è che sempre più Lecce si sa distinguere e ormai anche celebrare nel ruolo di città sede di eventi e di iniziative di livello nazionale.
Per tutto il resto, per quello che è avvenuto alle 21 all'interno del Castello (ovvero il conferimento del Premio San Michele a chi si sia distinto per "coraggio, altruismo, solidarietà e legalità"), ci sarà una differita targata Rai e condotta da Paola Saluzzi e Fabrizio Frizzi.
24 settembre 2010
Quei nuovi comunisti allo Zei
Zei Spazio Sociale (un escamotage elegante e ben arredato per non definirsi "centro sociale") sorge in un appartamento al piano terra di Corte dei Chiaramonte, nel cuore del centro storico di Lecce: un toponomastico aristocratico, ma niente affatto in contrasto con una frequentazione (più di 1600 soci) che ha mostrato e mostra di essere di vedute molto larghe, in fatto di base sociale. Lontani anni luce dalle posizioni che, altrove, rendono circoli come questo più esclusivi di intere sezioni della Lega Navale, che magari sono dotati di sedute dal design decisamente inferiore, rispetto allo Zei. Luoghi nobili al contrario, ma con lo stesso sprezzo per il diverso o l'emarginato, solo perché ha una macchina che non perde olio o una Milf per genitrice.
Per lo Zei, il programma sociale di questo settembre 2010 è uno dei più importanti di sempre. Le attività del circolo ARCI (Associazione Ricreativa e Culturale Italiana) più frequentato e in vista di Lecce sono ripartite dopo una pausa durata tutta l'estate: la Festa di Riapertura del 10 e quella di ieri sera coi "Playontape"; i dj set dell'11 e del 18; le mostre d'arte di "Fusione". Ma, ben più importanti, le cinque giornate di congresso, che terminano proprio stasera e corrispondono al quinquennale dalla nascita di Zei. Suddivise per tema (Riflessioni sull'Ambiente; sulla Cultura; sull'Immigrazione; su Lavoro e Formazione), le Giornate sono state probabilmente il più riuscito tentativo giovanile o tardogiovanile, da parte dei leccesi, di impostare un dialogo su quello che sta accadendo alla politica italiana, in questi anni di digestioni e indigestioni di tutto quello che sembrava dovesse essere un tabù, e invece era possibile. In questi anni, del resto, in cui il principale partito della sinistra è anche l'acronimo della castima più amata dagli italiani.
Basta avvicinarsi alla sede dello Zei di qualche metro in più, rispetto alla consuetudine, per rendersi subito conto di quanto sia pregiudiziale l'idea che alcuni genitori di estrazione fighetta urbanizzata o suburbana in generale si fanno di questo luogo, non appena i loro figli cominciano a frequentarlo o a chiedere per l'onomastico una felpa con su scritto "Gattocomunisti siempre". E' il grande giorno del Congresso, in cui si dovrà annunciare il successore del Presidente che ha portato lo Zei ad essere quello che è oggi. E, nella fattispecie di queste ore, un posto allegramente pieno zeppo di alcolici e di bei giovani di orientamento politico un po' più che progressista, fra i venti e i trent'anni (con qualche eccezione in ambo i sensi di marcia).
Il bisogno di fresco li costringe a sedere un po' tutti sulle soglie delle case intorno alla sede, mentre il loro capo spirituale parla a un microfono abbastanza potente, forse, da rimettere in moto lo spauracchio delle continue minacce di cause legali o scopettoni - da mossi a molto mossi - da parte del vicinato. Eppure non smettono di essere fieri dell'aspetto curato, tutt'altro che pauperistico, che sono riusciti a dare alla loro sede. Anzi, si fa anche un discreto servizio d'ordine intorno alla Bmw station wagon che, tradizionalmente, campeggia nello spazio antistante all'ingresso dello Zei. Apparterrà all'unico vicino che non si lamenta, c'è da credere.
Oggi si fa il bilancio di cinque anni di attività. Ci sono preoccupazioni per quali saranno gli esiti delle proteste contro la legge 133 della Gelmini; ma anche tanto entusiasmo per le riunioni Arcilesbica che qui si sono svolte, nonché per la temperatura raggiunta dalle lettine di Red Bull che qui si sembra gradire molto, soprattutto in concomitanza con la vodka. Deve essere per l'origine ex marxista di questo cocktail, che dai peggiori autogrill di Brno è andato diffondendosi anche per mezza Europa filoccidentale. Capiamo definitivamente che le cose stanno cambiando, anche per questi dolcissimi comunisti, quando, al passaggio di due freschissimi coniugi evidentemente di centrodestra (quanti pianificatori quinquennali conoscete che si fanno prestare una Mercedes classe E per maritarcisi dentro), le loro donne esclamano, ingenuamente, come se non ci fosse niente di più organico da dire: "La sposa!". E il bello è che parecchie di loro sono anche molto carine.
22 settembre 2010
Cos'è il culto di San Gisponzio
Sembra che la società di oggi non riesca ad alimentare molti culti all'infuori di quelli generati o dai fenomeni pubblicitari - credi profondissimi, anche monoteistici a tratti, che non durano però più di una stagione televisiva - o da quella parte della produzione cinematografica che, instancabilmente, cura l'immagine delle malavite e dei malavitosi. Un lavorio contro cui tutte le arti della cronaca nera - perfino se passata in televisione - possono sempre meno, avviluppate come sono dalla santificazione di quello che i critici definiscono eroe negativo; ma che chi ne ha davvero incontrato uno per strada, semplicemente, chiama mafioso.
La nostra capacità di credere in qualcosa è ormai talmente particolarizzata e, a un tempo, anonimizzata al cospetto delle grandi fedi di massa del passato, che i polemisti ritengono che sia solo una questione di tempo e ognuno di noi corrisponderà al proprio idoletto personale. Questo, in maniera non dissimile da quanto fece Time Magazine qualche tempo fa, incorniciando come uomo dell'anno, in una sua copertina epocale (argentata, con effetto specchio), nient'altri che "you" - il lettore. Noi, tutti.
Solo un uomo, vestito di un'ampia tunica scura; dotato di lunga barba bianca e di una bella tre quarti di "Dreker" in mano (che impugna con la stessa interessata indifferenza con cui i suoi colleghi cattolici recano in mano i rametti di palma, simboli del loro martirio) può fare qualcosa per salvarci. O, quantomeno, per sbronzarci. Prima che che don Tonino Bello possa fare il grande salto di qualità; proprio ora che Padre Pio, che invece lo ha già fatto, pare essersi un po' imborghesito; solo uno sembra poter rispondere alle nostre primigenie esigenze di culto e di dionisiaca adorazione di qualcosa che non sia né Steve Jobs né i nostri pettorali. Secondo Dario Vadacca, che della relativa Chiesa è Pontefice Massimo, quest'uomo risponde al nome di San Gisponzio.
Io lo immagino, il Pontefice-Mago di Oz-Vadacca, nell'atto di dare vita - al posto che riceverne - al suo piccolo, grande Dio: parodizzando, in cuor suo, metà delle iconografie rinascimentali sacre. Le mani dell'uomo e della divinità sono tesissime, fino quasi a toccarsi al centro del cielo e del mondo, mentre ci accorgiamo che in realtà niente si sta creando, niente si sta distruggendo, ma Dio sta solo chiedendo da accendere ad Adamo, che gli ha appena passato una canna. Ma lasciamo alla Parola di Papa Vadacca il compito di definire meglio le dottrine dei gisponziani.
"Il culto di S. Gisponzio parte da un'idea manichea del mondo: esiste il bene, costituito dal divertimento e dallo spirito goliardico, ed esite il male, costituito dalla negazione di tutto ciò. Sembrerebbe una filosofia edonistica ma non è così, poichè a muovere le azioni del fedele non è solo il piacere ma anche il dovere nei confronti della causa e degli altri adepti". Il Pontefice continua: "E' necessaria un'incrollabile fede nella botta di culo, intesa come strumento che consente di superare gli umani limiti e può condurre ad esito positivo qualsiasi prova non superabile con le nostre sole forze". Non è difficile immaginare che la Bibbia di questa fede potesse essere già presente in molti dei suoi adepti, ben prima della rivelazione della Parola gisponziana, ma aveva bisogno di una codifica, che Vadacca, da perfetto sacerdote moderno, ha deciso di affidare ai social network. Già 549 spiriti eletti sono fan facebookiani di San Gisponzio: un numero certamente destinato a crescere, ma senza esagerare, a patto che i nuovi arrivati non portino da bere, beninteso. Soprattutto sono tenuti a farlo in occasione delle Feste Patronali in onore di Gisponzio (di cui l'ultima, celebrata alla Masseria Le Fattizze lo scorso 31 luglio, non lontano da Torre Lapillo).
I pessimisti possono pensare che la cultualità di Gisponzio altro non sia una versione deviata del noto "vaffanculo pensiero" (di cui, del resto, certo non mancano notevolissimi interpreti salentini). In realtà, crediamo che la verità stia da un'altra parte.
Da sempre, o da troppo tempo perché non cerchiamo almeno ricordarcelo, la storia delle religioni, insieme con quella delle arti figurative, con infiniti esempi, riti e tradizioni, non ha fatto altro che provare a insegnarci che tutto quello che conta, per vivere bene in questo mondo, è credere in qualcosa che apparentemente non ne faccia parte. Che ne sia migliore, superiore, o anche solo diverso. Prendete, non a caso, Steve Jobs o Gigi D'Alessio.
Grazie, allora, Sommo Pontefice Vadacca, per averci mostrato un'altra volta - che per alcuni, se non ci andiamo piano con gli alcolici e il resto, potrebbe anche essere l'ultima - che forse solo i greci della prima democrazia (o al massimo i latini delle ultime orge prima della crisi), potevano permettersi di somigliare tanto ai propri dei. Oggi, se gli dei torniamo ad essere noi, stiamo freschi. Piuttosto, guardiamo in avanti e pensiamo alla Sbronza di Fine Mondo, che il calendario gisponziano ha fissato, con ironia alla Douglas Adams, per il 21/12/2012.
21 settembre 2010
Lo schifo al Conflitto Palmieri
Tutto cominciò questo luglio, quando si aprì - con un bel successo di pubblico, al tempo stesso colto e popolaresco - la mostra dei due Caravaggio. La Provincia di Lecce, nella persona del suo raggiante assessore alla Cultura, Simona Manca, ambientò in quello che resta del convento di San Francesco della Scarpa l'enigma storico-artistico dell'attribuzione di due tavole che, per tutta l'estate, si sono guardate in cagnesco, da un lato all'altro della navata maggiore. La gente affluiva perfino di giorno, in pausa pranzo, per dire la sua su un problema cui neanche i massimi esperti del pittore lombardo - nè i più scaltri assicuratori laziali - sono riusciti a venire a capo. Cionondimeno si gridò al miracolo, perché i propilei neoclassici dell'ex Convitto Palmieri, costruiti intorno alla vecchia struttura francescana, da grigi e incolori che era stati per decenni - da quando i più deamicisiani dei leccesi anni '40 smisero di frequentarla come scuola - improvvisamente acquistarono nuova linfa vitale, insieme con una discreta dose di fumo passivo da cannabis, che del resto pare che non abbia mai fatto male ai talenti versati nel campo dell'arte. Complice un orario di apertura molto elastico (fino a dopocena il weekend), la piazza del Convitto cominciò, progressivamente, ad assumere le inusitate fattezze di un piccolo Campo de' Fiori salentino, in cui i meno "localari" dei locali si mischiavano con i meno turistici dei turisti di passaggio; giovani avvocati di centrosinistra trasportavano lì chitarra ed amplificatori, e si esibivano in improvvisazioni che tutti gradivano e molti ballavano; i baristi dei paraggi esultavano all'idea che non fosse più necessario affogare nelle proprie stesse birre lager da un euro i tanti dispiaceri di interi sabati sera trascorsi a contare i cocktail da 8 euro per cui il bel mondo faceva la fila, cinquanta metri più in là, al Cagliostro.
Oggi, e siamo solo al 22 si settembre, è un compito particolarmente ingrato, ma è anche un dovere degli osservatori del costume della società, giocare a trovare le differenze fra questa armonica età dell'oro del rinnovato Convitto, e lo spettacolo che è possibile vederne rappresentato, distanza di poco più di due mesi da questo inatteso exploit.
Gli scalini al di sotto delle colonne in pietra, poco ci manca che non producano cascatelle di urina mista cane-padrone. A luglio erano la platea naturale di quello che accadeva al centro; ora non sono altro che un enorme vespasiano interraziale, coronato al centro da un Giosuè Carducci che non ha conosciuto "Odi barbare" peggiori. Lo spazio un tempo occupato da giovani tedesche, corse a Lecce per imparare la pizzica e due tre altri trucchi, ora è una distesa di fattone che neanche il loro cane personale riesce a tenere al guinzaglio.
Chi, solo, prolifera indisturbato sono i piccoli e medi pusher e il baretto dei pressi, di cui sopra, un tempo noto solo per le birre da un euro. Ora, che ha diversificato, offre anche i mojito da 3 euro, tremendamente con limone al posto del lime. Qua e là un focolaio di rissa viene sedato solo per la tempestività di una corsa al gabinetto che, per fortuna, dista pochissimo dal luogo dello scontro appena scampato.
Il resto è la rappresentazione più grafica possibile dei conflitti di responsabilità della politica che, invece di reinstallare altrove questo "tableau vivant" di rifiuti, fa solo scarica barile (ancora pare che Comune e Provincia dibattano l'attribuzione, non più di dipinti secenteschi, ma dei rigagnoli marroncini che passano per questo o quel tratto di marciapiede.
Non vogliamo e non dobbiamo pensare che piazzetta Carducci potesse essere preferibile quando era il parcheggio selvaggio per le Audi rateizzate dei fighetti notturni. Ma ho visto coi miei occhi ex membri di autentici collettivi studenteschi a sinistra della sinistra generare le prime espressioni di qualcosa che avevo mai visto, e non avrei mai voluto vedere nei loro sguardi, di norma carichi di odio solo per i napoletani ricchi o Laura Pausini: il germe della prima intolleranza. C'è sempre la prima volta, per tutto. Eppure speriamo che presto possa essere chiudersi l'ultimo sipario davanti a una corte dei miracoli che i nostri miracolati della politica - nessuno escluso - non possono fare durare ancora a lungo. A meno che davvero non vogliano che avvenga l'irreparabile: un punkabbestia da due generazioni (di cani) che davvero chiami la Polizia.
Alla prima di "Noi credevamo"
Certi osservatori delle cose culturali salentine, e fra di essi alcuni dei più cauti diplomatici fra di essi, hanno temuto a lungo che non fosse domenica il momento più adatto di presentare in pompa magna un film antiborbonico come "Noi credevamo" (di Mario Martone, coproduzione italo-francese fra Rai Cinema, Rai Fiction e ARTE France), proprio nel nostro Salento. Perlomeno, non adesso che la créme dei neoborbonici di Terra d'Otranto è tornata finalmente alla ribalta mediatica, ammantata di rinnovata comunicabilità dietro lo scudo neofeudale, neoaraldico, e neobruttino del movimento intorno al Salento Regione; che queste illustri minoranze accarezza, coltiva, proietta.
Tuttavia, essi si sbagliavano. A parte che, in fondo, tanto antiborboniche queste tre ore e venti di film non sono affatto, tutto sottese come sono a mostrare, attraverso la filigrana del dolore e della sofferenza dei suoi protagonisti (tutti e tre affiliati alla Giovine Italia), le profonde divergenze di vedute fra i massimi patrioti italiani, nonché un bel po' di loro soprusi e vaghe nefandezze coi sottoposti.
Avrebbero dovuto esserci, due giorni fa, a Cavallino, quegli osservatori. Se solo il loro orgoglio di uomini di cultura non li tenesse regolarmente lontani da ogni evento culturale, per loro o altrui volontà, avrebbero capito immediatamente come lo charme delle star presenti, unitamente a quello del personale politicante accorso al teatro "il Ducale", sia l'espressione più alta di un certo gattopardismo cinesocioeconomico del Salento. Il quale, che piaccia o no ai gusti in fatto di prime edizioni e cozze gratinate dei suddetti nostri diplomatici, non solo può darci da mangiare (e, in qualche caso, pure da abbinare vini), ma ne potrebbe dare sempre più anche ai nostri figli, ai nostri nipoti e ai cloni dei nostri nipoti.
Il punto è che chi non riconosce che il Salento è un set naturale, tutto da agevolare e decantare - come il presente Oscar Iarussi, Presidente dell'Apulia Film Commission ben sa - di eventi come di film, e di eventi su film, forse, ahimé, non avrà la fortuna di rientrare in quel caro discorsetto del "perché tutto rimanga com'è".
Il cast del film, proiettato domenica in prima nazionale, è davvero quello delle grandissime occasioni. Accontenta quasi tutti: i critici superciliosi, le mogli superbe, le fidanzate supponenti. Per tutto il resto, c'è Luca Barbareschi, qui nel ruolo di Antonio Gallenga, patriota parmense. Si va da Luigi Lo Cascio a Valerio Binasco; passando per il sublime Toni Servillo (nel ruolo, udite udite, di Giuseppe Mazzini in persona) e la bella e brava Francesca Inaudi; fino a Luca Zingaretti, che presta il volto nientemeno che a Francesco Crispi. La pellicola, manco a dirlo, è di carattere storico-drammatico, e racconta alcune delle pagine più struggenti del risorgimento meridionale, che includono anche un commovente episodio sullo stesso Sigismondo Castromediamo (interpretato da Andea Renzi, attore di ozpetekiana memoria) originario proprio di Cavallino. L'enorme pellicola è tratta da un romanzo del 1967 della riscopribilissima Anna Banti (omonimo), adattata per l'occasione dalla penna di Giancarlo De Cataldo, pure presente alla prima. Non mancava neanche Edoardo Winspeare, quasi da confondere fra i politici della situazione, tanto è piccolo il ruolo che Mario Martone è riuscito a ritagliare al regista anglo-depressaro.
Antonio Gabellone, col suo immancabile assessore provinciale alla cultura Simona Manca, faceva sfoggio della sua solita educazione da politico non ancora professionista; mentre il sindaco di Cavallino, Michele Lombardi, e il relativo assessore alla Cultura Gaetano Gorgoni, com'è immaginabile, gongolavano senza sosta.
"Noi eravamo" sarà in alcune sale kamikaze (3 ore e venti sono 3 ore e venti) partire da novembre 2010, ed è dotato di interni ottocenteschi di un'eleganza mozzafiato, nonché di alcuni dei migliori costumi che ci sia dato scorgere in una produzione storica dai tempi, forse, dei Viceré di Roberto Faenza.
Fra tanti bravissimi attori e bellissimi personaggi, sempre con l'eccezione dell'odioso Barbereschi, spicca però su tutti l'accoppiata perfetta della strepitosa Francesca Inaudi nel ruolo di Cristina di Belgiojoso (giovane): solo lei, nemmeno lo stesso Zingaretti, sono stati in gradi di far produrre sorrisetti di compiacimento all'uditorio, per altri versi molto, troppo impegnato a sforzarsi di leggere i minuscoli sottotitoli delle parti in francese da lei recitate.
17 settembre 2010
Elogio di Andrea Baccassino
Andrea Baccassino - come ama dire egli stesso - appena nato era già neretino, in un 1973 forse ancora troppo poco lontano perché la sua produzione musicale possa dirsi di culto, ma già abbastanza perché sia ora di parlarne più diffusamente, almeno rispetto a una delle solite brevi di spettacolo.
I titoli delle sue "opere" non vi saranno tutti noti. Ma vi faranno subito ridere, appena ne avrete colto l'assonanza con il successo pop da cui, di volta in volta, derivano. Successivamente, vi chiederete come avrà svolto, in decine e decine di casi, la complicata matassa della traslazione nel suo dialetto delle varie "Hey Jude" ("Ehi, Ucciù / ma comu gghè / puerti 'ddh'uecchi / mmattuliciati), "New York, New York" ("Nci so' mille città / ma so' felice qua / piccé so' di Nardò Nardò). Vi stupirà la varietà di temi e situazioni che Baccassino riesce a mettere in scena, con piglio da vero scenografo di teatrino, in così pochi versi e con così ristrette possibilità metriche. Ma cos'è che fa cantare le piccole folle dei più rinomati pub di Galatone, come dei peggiori wine bar di Lecce?
La principale differenza fra un vero cantore comico e dialettale contemporaneo - come può esserlo stato Federico Salvatore per la Napoli negli anni '90, o Checco Zalone per la Bari degli anni 2000 - è che Baccassino non usa solo la realtà quotidiana come materia prima da cui trarre la forma delle sue liriche. Bensì, adopera la parola musicata stessa, facendo dei testi altrui nient'altro che una seconda metrica al suo servizio. E con una tale decisione che, fra i casi citati, Baccassino è l'unico che può essere goduto al di là delle performance di piazza o in video: basta solo ascoltarlo. Andrea usa la musica e le canzoni - dotte o popolari che siano, spaziando da Battiato fino ai Ricchi e Poveri - senza ripetere pure a Nardò le missioni - più o meno volontariamente - culturali degli Zaloni di tutta Italia, che prendono un'identità dialettale o pseudodialettale e la elevano momentaneamente al rango di linguaggio nazionale, in un contesto di italiano "ufficiale" ormai in ogni caso imploso, fin dalle fondamenta delle sue istituzioni scolastiche. Baccassino, al contrario, preleva un aspetto della musica nazionale o internazionale e la sottopone a Nardò e alle sue contraddizioni più amare o fascinose. Le epifanie di bellezza nascoste nel vicolo più sudicio; gli inconvenienti dei sanitari rotti proprio nel momento più importante; e ciascun altro prodotto di quella particolarissima ermeneutica della sfiga e della ristrettezza che, da sempre, solo i comici più sboccati e dolceamari sanno elevare a metodo cognitivo.
La differenza fra lui e un cantante vero, magari un pomposo cantautore, è parte integrante della sua estetica popolana, e guai a toccargliela. Forse è proprio per questo che, nonostante l'indubbio successo di pubblico (quanti suoi colleghi amano fingersi il nuovo Gigi D'Alessio, per molto meno), Andrea ha l'immensa, quasi commovente modestia - per uno che, tutto sommato, ha dimostrato di saper dominare le parole - di abbracciare con entusiasmo la distanza che lo separa dalla cosiddetta musica pop ufficiale. Proprio ciò che lo rende commercialmente borderline - se non penalmente rilevante, visto che è un fatto che non risultano ancora abrogati quei due o tre articoli di legge sul diritto d'autore - è la sua forza.
Anche se le sue sono chiaramente parodie, Baccassino non deride mai il testo originale della canzone che trasforma, ma solo la realtà contradditoria della parte di provincia che ha deciso di raccontare. Le corse per fare in tempo a portare in spalla la statua di un Santo; gli eccessi in piastrelle e marmi dei nuovi ricchi del paesino; le grottesche tecniche di seduzione di femme fatali mancate. Per questo che nessun autore delle musiche originali potrebbe mai volergli male.
Baccassino è immediato come l'amico d'infanzia che storpia le canzoni della nostra autoradio, in attesa che a nostra volta possiamo storpiare le sue, visto che, fino a prova contraria, non tutti i salentini, soprattutto giovani, riescono a capire al volo molti suoi testi (e magari proprio operazioni culturali come la sua possono aiutarci in questa direzione del recupero della cantata, se non della parlata, dialettale).
Insomma, stasera, nel cuore della sua Nardò ("Vite! Vinotecheria Musicale", ore 22), ascoltiamo Baccassino senza pregiudizi di sorta. Apriamoci a questo raro caso di musicista contemporaneo che non teme la pirateria, perché era pirata - della lingua e della musica - egli stesso, prima ancora di automasterizzarsi il primo cd vergine.
15 settembre 2010
Mignottocrazia
Un discorso sulla mignottocrazia italiana, come problema politico prima che morale, è stato recentemente sollevato da Nichi Vendola, in relazione a delle dichiarazioni di Paolo Guzzanti, che avrebbero causato attacchi di panico ovvero crisi d'ansia al nostro Presidente Regionale, mai come in questi giorni sensibile alla questione dell'etica professionale delle donne di potere nel Belpaese.
La storia di questo odioso termine, che però è molto realistico - se non rispetto alle condizioni in cui versa la politica italiana - almeno rispetto alla composizione della delegazione italiana del Gruppo del Partito Popolare Europeo a Strasburgo, nonché a quella di alcuni strategici gabinetti del Governo della nostra Repubblica, è presto detta. Era il 1998 quando Paolo Guzzanti coniò questa espressione, prendendosi giuoco di (o complimentandosi con, secondo le prospettive e le inclinazioni personali) Mara Carfagna, nominata Ministro per le Pari Opportunità nel maggio di quello stesso anno, in seguito a una non brillante carriera di modella, valletta e conduttrice televisiva; e, fra le altre cose, a una conversazione riguardo la persona del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui fa parte (la cui intercettazione telefonica fu resa pubblica solo nel luglio successivo) in cui si faceva riferimento a "prestazioni di natura sessuale e nella fattispecie un rapporto di sesso orale", da consumare preferibilmente con il suddetto premier. Fu lungimirante, allora, Gad Lerner a prendersi giuoco a sua volta di Guzzanti, mettendone in evidenza il tardivo, supposto antiberlusconismo di matrice scandalistica e moralistica. Noi, vogliamo ripartire proprio da questa sincera critica da sinistra a un politico falso e di destra, per dire due o tre cose sulla mignottocrazia italiana, e sul perché del fatto che, nella stessa accezione con cui si è affermata a livello nazionale, non può esistere a Lecce.
Innanzitutto, nella definizione di mignottocrazia stessa vi è un falso problema. La mignottocrazia non è altro che l'unica risposta possibile, nel nostro paese dello sberleffo e dell'aberrazione della norma, all'ipocrisia moderna del concetto di quote rosa. A quell'idea per cui le donne devono essere rispettate perché sono diverse. Di conseguenza, la mignottocrazia è l'unico modo in cui la femmina italica bella e non troppo stupida sta riuscendo a risollevarsi dall'omologazione in cui il postfemminismo l'aveva sepolta. L'unico modo grazie al quale le donne italiane che stanno contando qualcosa in politica possono essere diverse perché rispettate.
Uno sguardo alla nostra beneamata città di Lecce, vista per una volta con gli occhi del mignottologo, può essere occasione di ulteriore chiarimento,
I nostri compagni di colazione più smaliziati, se interpellati, sosterrano che la mignottocrazia in senso stretto non abbia mai attecchito, nel Salento, più che altro perché da decenni ha saturato le possibilità del suo senso lato. In altre parole, escluse - per forza di cose - le mamme e le sorelle dei presenti, dalle parti nostre, mercanteggiare sentimenti, o simulazioni di essi più o meno accurate, più o meno realistiche, è talmente connaturato a noi stessi che, quando avviene alle nostre latitudini, non ce ne rendiamo neanche conto. Di più: non ci poniamo il problema della mignottocrazia locale non solo perché non esiste, ma anche perché è dappertutto. Il che, non è esattamente come affermare - e basta - che questa qualità dello spirito ci sia connaturata. Non è tanto nei pochi, sparuti casi di nepotismo coniugale - vedi: in politica - che la nostra specialissima mignottocrazia si annida. Bensì, nelle tante, troppe, "grandi donne dietro grandi uomini" che, puntualmente, tanto grandi non sono (almeno, in due o tre sensi). Il fatto è che le più realizzate fra le nostre mignottocrati non sono né giovani, né single, né aspirano a fare le veline, e neanche le velone, se è per questo. Le mignottocrati salentine hanno scelto altri terroir, altre temperature, altri obiettivi per la loro attività incessante e sottocutanea. E' per questo che non ci sono mignottocrati veramente fresche e bone, a Lecce. Ovvero, sono incandidabili anche per il più smaliziato dei capi di partito. Perché le vere mignotte non glielo permetterebbero mai, per candidare i loro figli e mariti.
E' proprio la crisi della storica classe dirigente italica delle "grandi donne dietro grandi uomini", a livello nazionale, che ha permesso il proliferare di mignottocrati in senso stretto, candidate improvvisate e malferme, scelte fra un provino e una sessione di casting, fra le fanciulle disponibili, dotate della migliore dizione, favella o altri sinonimi di oralità. Non è stata solo la crisi della classe politica.
Da professionisti della comunicazione quali siamo (almeno da altrettanto tempo rispetto a quando le mamme e le sorelle del nostro prossimo hanno cominciato il loro mestiere), noi leccesi non ammetteremmo mai dell'esistenza di questo sistema, che in gran parte ci governa, ci alimenta, ci tiene in vita. Infatti, questo articolo è un'anomalia spazio-temporale e Cleopatra non è mai esistita.
Mignottocrazia
Un discorso sulla mignottocrazia italiana, come problema politico prima che morale, è stato recentemente sollevato da Nichi Vendola, in relazione a delle dichiarazioni di Paolo Guzzanti, che avrebbero causato attacchi di panico ovvero crisi d'ansia al nostro Presidente Regionale, mai come in questi giorni sensibile alla questione dell'etica professionale delle donne di potere nel Belpaese.
La storia di questo odioso termine, che però è molto realistico - se non rispetto alle condizioni in cui versa la politica italiana - almeno rispetto alla composizione della delegazione italiana del Gruppo del Partito Popolare Europeo a Strasburgo, nonché a quella di alcuni strategici gabinetti del Governo della nostra Repubblica, è presto detta. Era il 1998 quando Paolo Guzzanti coniò questa espressione, prendendosi giuoco di (o complimentandosi con, secondo le prospettive e le inclinazioni personali) Mara Carfagna, nominata Ministro per le Pari Opportunità nel maggio di quello stesso anno, in seguito a una non brillante carriera di modella, valletta e conduttrice televisiva; e, fra le altre cose, a una conversazione riguardo la persona del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui fa parte (la cui intercettazione telefonica fu resa pubblica solo nel luglio successivo) in cui si faceva riferimento a "prestazioni di natura sessuale e nella fattispecie un rapporto di sesso orale", da consumare preferibilmente con il suddetto premier. Fu lungimirante, allora, Gad Lerner a prendersi giuoco a sua volta di Guzzanti, mettendone in evidenza il tardivo, supposto antiberlusconismo di matrice scandalistica e moralistica. Noi, vogliamo ripartire proprio da questa sincera critica da sinistra a un politico falso e di destra, per dire due o tre cose sulla mignottocrazia italiana, e sul perché del fatto che, nella stessa accezione con cui si è affermata a livello nazionale, non può esistere a Lecce.
Innanzitutto, nella definizione di mignottocrazia stessa vi è un falso problema. La mignottocrazia non è altro che l'unica risposta possibile, nel nostro paese dello sberleffo e dell'aberrazione della norma, all'ipocrisia moderna del concetto di quote rosa. A quell'idea per cui le donne devono essere rispettate perché sono diverse. Di conseguenza, la mignottocrazia è l'unico modo in cui la femmina italica bella e non troppo stupida sta riuscendo a risollevarsi dall'omologazione in cui il postfemminismo l'aveva sepolta. L'unico modo grazie al quale le donne italiane che stanno contando qualcosa in politica possono essere diverse perché rispettate.
Uno sguardo alla nostra beneamata città di Lecce, vista per una volta con gli occhi del mignottologo, può essere occasione di ulteriore chiarimento,
I nostri compagni di colazione più smaliziati, se interpellati, sosterrano che la mignottocrazia in senso stretto non abbia mai attecchito, nel Salento, più che altro perché da decenni ha saturato le possibilità del suo senso lato. In altre parole, escluse - per forza di cose - le mamme e le sorelle dei presenti, dalle parti nostre, mercanteggiare sentimenti, o simulazioni di essi più o meno accurate, più o meno realistiche, è talmente connaturato a noi stessi che, quando avviene alle nostre latitudini, non ce ne rendiamo neanche conto. Di più: non ci poniamo il problema della mignottocrazia locale non solo perché non esiste, ma anche perché è dappertutto. Il che, non è esattamente come affermare - e basta - che questa qualità dello spirito ci sia connaturata. Non è tanto nei pochi, sparuti casi di nepotismo coniugale - vedi: in politica - che la nostra specialissima mignottocrazia si annida. Bensì, nelle tante, troppe, "grandi donne dietro grandi uomini" che, puntualmente, tanto grandi non sono (almeno, in due o tre sensi). Il fatto è che le più realizzate fra le nostre mignottocrati non sono né giovani, né single, né aspirano a fare le veline, e neanche le velone, se è per questo. Le mignottocrati salentine hanno scelto altri terroir, altre temperature, altri obiettivi per la loro attività incessante e sottocutanea. E' per questo che non ci sono mignottocrati veramente fresche e bone, a Lecce. Ovvero, sono incandidabili anche per il più smaliziato dei capi di partito. Perché le vere mignotte non glielo permetterebbero mai, per candidare i loro figli e mariti.
E' proprio la crisi della storica classe dirigente italica delle "grandi donne dietro grandi uomini", a livello nazionale, che ha permesso il proliferare di mignottocrati in senso stretto, candidate improvvisate e malferme, scelte fra un provino e una sessione di casting, fra le fanciulle disponibili, dotate della migliore dizione, favella o altri sinonimi di oralità. Non è stata solo la crisi della classe politica.
Da professionisti della comunicazione quali siamo (almeno da altrettanto tempo rispetto a quando le mamme e le sorelle del nostro prossimo hanno cominciato il loro mestiere), noi leccesi non ammetteremmo mai dell'esistenza di questo sistema, che in gran parte ci governa, ci alimenta, ci tiene in vita. Infatti, questo articolo è un'anomalia spazio-temporale e Cleopatra non è mai esistita.