20 aprile 2011
Come parlare bene di Paolo Perrone
In edicola con 20centesimi
Nota per il lettore: l’articolo che segue è l’ammissione di un debole per Paolo Perrone che non può che essere inteso, più che a titolo personale, a vostro rischio e pericolo. Di più: è un outing che tenevo dentro e che, dopo i tanti incontri culturali e politici della scorsa settimana, doveva pur venire fuori in qualche modo. Sono felice che abbia scelto il meno doloroso, seppure non il più rapido.
Un latinista più forte di me direbbe che le mie considerazioni dovrebbero essere intese “ad usum Delphini”, perché epurate di tutti gli elementi scabrosi o comunque ritenuti inadatti a un lettore di giovane età o dotato di forte sensibilità. Ma io volentieri mi fingerei tale ai vostri occhi, se non fosse che l’espressione ricorderebbe troppo da vicino l’elegante titolo ittico-cetacico che l’opinione pubblica salentina attribuì al giovane Paolo, quando si trattò di designare un erede naturale per Adriana Poli Bortone. E la cosa creerebbe confusione.
Sono diverse notti, insomma, che la mia anima 20centesimale lotta contro quello che oggi chiamo un morbo ma che domani, chissà, ribattezzerò shakespearianamente vero e proprio amore.
Io non è che a Paolo Perrone non volessi bene di mio, questo sia chiaro e limpido come il suono della voce di Tito Schipa che fuoriesce, ogni mattina a mezzogiorno, dai megafoni che il sindaco di Lecce ha reso i simboli sonori della sua città. Vi dirò di più: se dovessimo considerare elementi psico-fisici, materiali, culturali o interpersonali, Perrone ha più cose in comune con me rispetto perfino alla Poli Bortone, che pure era stato uno dei primi cittadini di Lecce con cui avevo spartito più parte del mio background e del mio modo di sentire, a parte tutti quelli che l’hanno preceduta dacché respiro aria, fumo e particolato fra questo mare, questa terra e questi cantieri per basolati.
Tantissime cose ci uniscono. Potrei fare molti esempi. Ne faccio uno solo. Sia io che Paolo possediamo forte in noi la nozione che non sia necessariamente un malnato, ma solo un diversamente inserito chi non abbia idea di quali parole o meglio cenni bisogna adoperare, per ottenere un cappuccino con una forma di cuore sulla schiuma, in uno dei tre o quattro bar veramente alla moda del Salento. Sono un 20centesimale anomalo? Non sono abbastanza di sinistra? Devo farmi una colpa del fatto che giro il nostro territorio in cerca di sempre nuovi “Tic & Tribù”, in esclusiva per voi?
Ma non è stato mentre inseguivo un tic o una tribù - bensì materiale più sostanzioso per questo spazio “terzo” - che la settimana scorsa mi sono reso conto di un paio di cose su Paolo Perrone, di cui neanche il più acuto o ispirato editorialista del “Nuovo Quotidiano di Lecce” si era reso conto.
Tutto è cominciato con quell’espressione che mi ha fermato il cuore, usata da Paolo nel corso della presentazione dell’ultima fatica letterario di Marco Panara: “La malattia dell’Occidente”, al cospetto di Raffaele Fitto e di Enrico Letta, fra gli altri: “Il sistema bancario è stato un gigantesco gioco del ‘puzza a te’ in cui la puzza rimaneva sempre addosso al risparmiatore”. E’ stato un punto di non ritorno. Non c’è alcuna ironia in quello che scrivo.
Nessuna delle riflessioni che ho fatto sulle origini e le possibili regole di quel gioco mi stavano portando sulla strada giusta. Anche se ormai ero arrivato a pensare al “puzza a te” come a una disciplina che, nata fra i punkabbestia “light” del genere polacchine taroccate e cene all’Angiulinu, si fosse poi diffusa anche sulla sponda opposta. Chissà se, nell’appropriarsene, il centrodestra non l’avesse elevato a un gioco strategico di guerra alla Risiko in cui l’untore iniziale della prima puzza tenta poi di conquistare il mondo. Quanto mi ero sbagliato.
Ho capito in un solo colpo quanto mi ero sbagliato nel ravvedere ego da capo berlusconiano, o comunque tracce di berlusconismo deteriore, in certi gesti o dichiarazioni di Perrone. Ad esempio, prendete l’occasioni in cui fummo esclusi dalla rassegna stampa del Comune in cui siamo domiciliati. Nel corso di una seduta in aula consiliare, Perrone, negando l’acquisto di 20centesimi al consigliere che lo aveva chiesto, disse: “Se è solo un problema di soldi, ne possiamo parlare”. Noi in quella risposta vedemmo un berlusconismo infiltrato, paludato perfino nella buona borghesia leccese: una borghesia di tradizione e di prestigio, fatta di belle maniere e di ambiguità profonde, ma mai così scortese (lo dice anche l’adagio). Sbagliato, sbagliatissmo.
Pensiamo anche a una risposta che Perrone diede a una giornalista che faticava a stare dietro alle parole del critico d’arte Toti Carpentieri, mentre spiegava i contenuti della mostra di Marc Chagall organizzata al Carlo V: “Stai prendendo appunti?”.
Quelle frasi, inconcepibili per molti, erano avvisaglia di quello che avremmo compreso insieme al “puzza a te” di qualche settimana dopo. E cioè che l’unico germe del berlusconismo che abbia mai attecchito nell’organismo di Paolo Perrone non è che il migliore possibile: quello di una sovrapposizione della sfera privata e di quella pubblica, al punto da non riuscire a separare le frasi che pronuncerebbe in un contesto di pranzo con gli amici o rifugistica doposci da quelle che direbbe a una conferenza stampa. La differenza sta nel fatto che la vita privata di Berlusconi è un remake gore di Satyricon di Fellini. Quella di Perrone la stessa di molti cittadini leccesi di buon gusto ma dalla lingua lunga. Il che non è assolutamente un male, confrontato coi sofismi, le contraddizioni, le macchinazioni della politica da Machiavelli in poi. Le frasi fatte, il fintissimo fair play istituzionale che a volte lancia un’ombra di ipocrisia anche sulle votazioni parlamentari in cui ci sono meno lividi o ustionati gravi. Paolo Perrone non è mai sprezzante o maleducato, anzi. Sarebbe ripetere il vecchio errore ritenerlo tale. Paolo è sempre alla pari con chiunque si rapporti, che sia giornalista, collaboratore, privato cittadino. Gli parla come a un amico. Un amico che forse qualche volta sta per diventare un conoscente, ma pur sempre uno “dei suoi”. Già lo avverto, lo zoccolo duro della community di 20centesimi, che borbotterà, parafrasando Cetto La Qualunque, quel campione cinetelevisivo di ogni pregiudizio sul tipico rappresentante del centrodestra meridionale: “Bravo De Stefano, si comincia col dare la precedenza all'incrocio e si finisce che ti pigliano per ricchione. Tu stai cominciando a lodare Perrone per il ‘berlusconismo positivo’ (o come cacchio lo chiami) e finirà che ti piglieranno per fascistello (soprattutto se ti tagli una buona volta i capelli come si deve)”. Qui è evidente che c’è più di un mito da sfatare. Gli omosessuali non sono obbligatoriamente forniti, chiavi in mano, con una gentilezza d’animo preinstallata (e basta andare a fare un giro dalle parti delle pinete gallipoline versante Pizzo, per rendersene conto); nè tantomeno possiedono una predisposizione innata a una forma di rispetto particolare - comune alla categoria - delle norme del codice della strada. In verità, non c’è nessuna categoria.
Allo stesso modo chi, come me, non la pensa in politica come Perrone, non necessariamente non la può pensare al suo stesso modo su tanti piccoli dettagli che rendono Lecce un posto di centrodestra in cui vivere. Per questo spero con tutto il cuore che Paolo Perrone continui a tenere questa piccola grande lezione di politica permeabilità col suo mondo personale ancora per lunghi mesi di amministrazione della mia città.
17 aprile 2011
Toni Servillo all'ombra del barocco
In edicola con 20centesimi
Il momento culminante dell’omaggio che il Festival del Cinema Europeo ha deciso di tributare a Toni Servillo è stato l’incontro coi baristi di “All’ombra del barocco”, che si è svolto ieri mattina in una corte dei Cicala impreziosita anche dalla presenza di una certa rappresentanza della stampa locale. Nonché di qualche graditissimo ospite della stampa vera e propria. L’evento seguiva le prime fondamentali proiezioni della mostra retrospettiva di film con Servillo, ricosciuto da molti dei presenti come uno dei più grandi attori italiani viventi - se non il più grande. L’accoppiata di questa mostra con quella delle regie di Emidio Greco ha reso questa edizione del Festival del Cinema Europeo sopportabile perfino a chi non fosse fan di Riccardo Scamarcio o a chi non confondesse Servillo e Greco fra di loro.
Servillo ha dato dimostrazione di una signorilità straordinaria almeno quanto la sua cultura nel campo della storia del cinema e del teatro. Ha tenuto a ricordarlo spesso, della sua origine teatrale e delle sue propensioni alla recitazione come “un’avventura dell’anima”, insieme con quanto gli sia costato - anche economicamente - non fare mai i conti con il mercato della televisione. “Eppure i grandi esempi prima di me non mancano, in questo senso” - ha precisato, ancora una volta facendo sensazione fra i presenti, markettari professionisti e patentati di
parcheggi futuristici, il grande Servillo. “Non tutti gli attori della tradizione del teatro ma anche del cinema italiano hanno accettato le offerte della televisione”.
E’ stato chiaro fin dalle prime battute che l’incontro con Servillo andasse inserito nella lista delle conferenze stampa serie svolte a Lecce dai tardi anni ‘70 ad oggi (che, fra l’altro, si contano sulle dita della mano di Mescio Tuccio, il celebre falegname e cantante di Karaoke ugentino, privato da uno dei suoi due mestieri di numerose estremità articolari). Un incontro serio al punto che, nonostante la presenza cartoonesca del sindaco di Lecce Paolo Perrone in cravatta rosa, si può parlare di successo di critica e di pubblico.
Si è partiti da un paio di episodi di manifestazione poetica di modestia che hanno immediatamente messo in difficoltà, oltre naturalmente la cravatta di Perrone già menzionata, anche diversi giornalisti locali, giunti in Range Rover Sport, parcheggiate in doppia fila di fronte a De Filippis. Perfino gli occhiali gialli da intellettuale integrato di Valerio Caprara, sublime critico cinematografico prigioniero, il sabato notte, di Gigi Marzullo, di Rai Uno e di Anselma Dell’Olio (“Cinematografo”), hanno cominciato a provare immediamente un fortissimo desiderio di essere quantomeno beige. Eppure, proprio Caprara è stato l’autore di uno dei più bei interventi della mattinata. Col suo accento partenopeo elegantissimo e sobrio, ha corretto il maestro Toni su un dittongo e mezzo di una cognome di cineasta francese che aveva pronunciato. Suscitando immediatamente le invidie della metà della platea che non riusciva a simulare in maniera abbastanza efficace di aver compreso quello che il collega aveva appena detto.
Per ogni istante della conversazione coi giornalisti, è stupefacente una cosa più di tutte le altre: Servillo non smette mai di parlare. Tace giusto per ascoltare le domande del pubblico, ma anche allora non smette mai di parlare con gli occhi. In molti casi, non smette mai di chiedersi chi diavolo siano quegli interlocutori così ipervestiti e, soprattutto, tanto desiderosi di sapere cosa pensi della Puglia e del Salento. E’ espressivo, in quell’anfratto in pietra leccese in cui lo hanno collocato Perrone e il sempre odiosissimo e chiassosissimo Alberto La Monica (autodefinitosi, sul relativo catalogo, “Festival Manager”), anche in silenzio, come in quei primi, sublimi minuti di Gorbaciòf, in cui non pronuncia una parola se non con lo sguardo.
Per la cronaca, alla domanda di cosa ne pensasse della Puglia, Toni Servillo aveva già risposto da sé, nel suo intervento introduttivo: “I momenti più emozionanti della mia vita privata li ho trascorsi tutti nel Salento e specificatamente a Santa Maria di Leuca”. Ha poi aggiunto, per accontentare al massimo i localisti: “Sto girando un nuovo film nel territorio di Brindisi con Daniele Ciprì, senza Maresco”.
15 aprile 2011
Quando Bersani diventa guru della comunicazione
In edicola con 20centesimi
Fra le piccole e grandi sorprese contenute nel libro dato ieri alle stampe da Pierluigi Bersani (presso i tipi di Laterza; titolo: “Per una buona ragione”) - fra le grandi non manca l’elogio di Benedetto XVI come papa “moderno” - c’è anche una vera e propria requisitoria in materia di linguaggio politico che il segretario del Pd ha rivolto ad alcuni dei membri, sia interni che esterni al Pd, della coalizione “naturale” con cui il centrosinistra potrebbe presentarsi alle prossime elezioni. L’assenza di Di Pietro e di dipietristi di sorta dalla hall of fame dei cattivi comunicatori istituita da Bersani, non si capisce se sia più un’ammissione a denti stretti della non classificabilità del molisano, o più un incentivo alla solidità della coesione col Pd e con Sel.
In ogni caso, non diceva male uno che era del ramo: “La fenomenologia del linguaggio è un'esperienza del mistero e dell'altro, delle persone e della loro storia”. Così, a soli 12 euro Bersani non si limita a studiare, insieme coi suoi due intervistatori Miguel Gotor (docente di Storia Moderna all’Università di Torino) e Claudio Sardo (giornalista), il male del populismo berlusconistico - cui vada ad aggiungersi pure quell’altro morbo, uguale e contrario al primo, ma ancora più letale dal punto di vista della produttività di contenuti e di risultati elettorali, che è l’antiberlusconismo. Citando ampiamente Gramsci, per Bersani “l’aulicità è uno strumento di dominio”.
Il segretario del Pd individua in tre filoni possibili le tendenze linguistiche che hanno allontanato dal popolo e soprattutto dalla popolarità il centrosinistra italiano. La prima ad essere citata dal guru della parlata schietta piacentino è la devianza vendoliana: la vena narrativa, quella libera favella in libera Regione che però non sempre è comprensibilissima e qualche volta è pure strumentalizzabile. Prova ne sia il fatto che una delle poche rubriche di grido rimaste ancora in vita al “Foglio” di Giuliano Ferrara si intitoli proprio: “Nichi, ma che stai a dì” e sia un elenco più o meno ragionato, proposto quotidianamente, “delle frasi più folgoranti pronunciate dal governatore della Puglia Nichi Vendola”. Ça va sans dire che quelle frasi hanno molto in comune con quelle che Checco Zalone ha pronunciato nelle sue ultime, memorabili imitazione del Governatore pugliese.
La seconda tendenza è quella promossa dall’ammerigano Walter Veltroni: qui, secondo il Bersani guru della comunicazione politica, si è sbagliato non per eccesso di narratività e difetto di sintesi e rapporto con la realtà (le “favole” di Vendola), ma per totale onirismo e forte impulso alla “fellinade”. Veltroni come regista di un sogno italiano destinato a dimostrare, per l’ennesima volta, che chi vuole mostrare a tutti i costi che contino più i percorsi delle mete, forse, non è che sia diretto verso chissà quale meta. Sono pesantissime le parole di Pierluigi che stigmatizzano il tentativo veltroniano di una via “a stelle e strisce”. Tanto più pesanti quanto più l’accusa è di “levità”: “Democrazia è una parola meno leggera di quanto non lo sia per la cultura liberal americana”.
Il terzo indiziato è indiziato Matteo Renzi, e qui il j’accuse riguarda la sua presenza su Facebook. A Bersani sembra non andarne bene una, perché il giovane sindaco di Firenze viene indiziato come fautore di una politica dedita alla personalizzazione di essa, in una visione che al progetto politico tende a sostituire la scelta delle persone, con conseguente rischio di derive plebiscitarie e diverse malattie cardiovascolari. Un esercizio di “democrazia delegata”, quello di Renzi, nulla di più e nulla di meno. E i politici pugliesi? Chi è al riparo dalle grinfie del Bersani spin doctor? Quasi tutti apparentemente, visto che non li calcola di striscio nel libro. Ma chi sono quelli a rischio, al netto delle critiche rivolte ad altri, che potrebbero assurgere a modello per una critica ai suoi derivati?
E’ quantomeno da notare come, oltre a questi tre mali della lingua parlata dalla sinistra italiana non al potere, Bersani eviti - non si sa quanto conscientemente - di produrne anche un quarto. Una quarta via fortemente intrisa di socialmedialità, come accade per il sindaco di Firenze, ma con tanta schiettezza e concretezza in più, che forse potrebbero essere le più vicine alla perfezione bersaniana: quelle di Michele Emiliano.
In realtà, parrebbe che i pugliesi e in particolar modo i salentini del centrosinistra, con qualche eccezione, se la cavino piuttosto bene all’esame del bersanometro. Sergio Blasi, ad esempio, è un curioso trait d’union fra narrazione e onirismo, fra cultura generale e preparazione politica. Eppure non è solo un dirigente: è stato anche un bravo amministratore. E’ il meno tradizionale dei rappresentanti del Pd pugliese, il meno paludato nella solita politica. E, soprattutto, possiede il merito di essere un originale. Sì, perché i rischio è sempre il vendolismo posticcio. Che non si può acquisire, come forse si può fare col veltronismo. Anche se Loredana Capone è lungi dall’essere un clone di Vendola - pensate solo ai vari traocchi salentini di D’Alema, che ne imitano perfino la gestualità - è un po’ più a rischio emulazione retorica, sull’onda dell’entusiasmo, ogni giorno che passa. Infine, nn veltroniano doc, uno che impazzisca per il jazz e che vada spesso in Africa, forse non ne abbiamo. Anche perché in Africa, in fondo in fondo, ci siamo quasi già.
2 aprile 2011
Lettera a un Tipografo malnato
Caro Tipografo, che ieri notte hai stampato la pagina 3 del numero di 20centesimi dell’altro ieri (venerdì) al posto di quella di ieri (sabato), volevo ringraziarti di esistere.
Anche se hai impedito al mio amico e collega Alberto Mello di veder pubblicato in tempo il suo bellissimo e premonitore articolo su Mantovano [lo trovate ancora online, sulla pagina Facebook di 20centesimi ndr], lo stesso volevo ringraziarti di esistere. Non prenderlo come uno sfottò: veramente il tuo gesto è stato importante per una serie di riflessioni a catena che ho deciso di fare, un po’ perché era bello farle, un po’ perché così non ci ho pensato più tanto, al tuo gesto, e tutto è andato meglio. Ci sono un sacco di cose che mi ha fatto venire in mente la tua piccola distrazione, che a qualcuno sarà parsa sconsiderata; a qualcun altro quasi inconsciamente dispettosa. E qualcun altro ancora non ho capito proprio bene cosa è sembrata, perché stava gridando troppo forte e poi insieme con gli altri di cui ti ho già detto, per giunta.
Il tuo ruolo, per me, nel buio dell’officina in cui attacchi a lavorare proprio quando io finisco, sei una specie di semidio, forse lucente, sicuramente miracoloso ai miei occhi. Forgi quelle paginette (che a furia di batterle come ferro incandescente, a dire il vero, si sono fatte più sottili da qualche tempo, ma novità imponenti sono dietro l’angolo) senza sosta, fino a che non è l’ora di farle partire per quell’altra magia, che ha pari solo in Lapponia la notte di Natale, che si chiama distribuzione dei giornali quotidiani italiani.
Le forgi e, per un attimo che dura 24 ore, noi siamo quello. Non c’è pentimento che tenga, correzione last minute, aggiornamento, affastellamento di Anse o di ansie: noi siamo quello che tu forgi per 24 ore. Quando qualcosa va storto, come ieri, nulla toglie alla mia Pollyanna interiore di pensare: che bello quando va tutto bene, però. Che bello che un giornale sia ancora questa magia che tu imponi a un pensiero che per un po’ resta quello che era l’ultima volta che hai voluto farlo, e nient’altro.
Il nostro rapporto, caro tipografo, viene da lontano. Ma non solo perché è più di un anno che siamo come il sole e la luna nei miti greci e ci amiamo, pur non potendoci mai incontrare. Non solo perché il tuo capo, una volta che non dimenticherò mai, mi ha visto nel bel mezzo di una fiera libraria locale. Ero solo, ero spaurito, più che altro non avevo un tavolo su cui poggiarmi. E mi offrì una stanzetta intera piena di tavoli e leccornie di ogni tipo. Anche patatine.
No, il nostro rapporto viene da ancora più lontano. Non voglio fare il modesto con uno che ha appena combinato un casino, la dico tutta: siamo l’anima e il corpo di questo giornale. Se tu non ci fossi, ogni notte, io mi scioglierei come neve al sole di marzo pazzerello. E tu, senza di me, saresti sordo e cieco come una talpa che ha scavato troppo. Ecco, io questo non lo ho pensato subito, stamattina, quando insieme con le dozzine e dozzine di persone che ci comprano ogni mattina e le migliaia e migliaia che pare ci scrocchino nei bar più selezionati di Lecce e Provincia, mi sono accorto del tuo errore. Ma ho aspettato un poco e poi ti ho perdonato. Non farlo mai più. Ti voglio bene,
il tuo giornalista.
Anche se hai impedito al mio amico e collega Alberto Mello di veder pubblicato in tempo il suo bellissimo e premonitore articolo su Mantovano [lo trovate ancora online, sulla pagina Facebook di 20centesimi ndr], lo stesso volevo ringraziarti di esistere. Non prenderlo come uno sfottò: veramente il tuo gesto è stato importante per una serie di riflessioni a catena che ho deciso di fare, un po’ perché era bello farle, un po’ perché così non ci ho pensato più tanto, al tuo gesto, e tutto è andato meglio. Ci sono un sacco di cose che mi ha fatto venire in mente la tua piccola distrazione, che a qualcuno sarà parsa sconsiderata; a qualcun altro quasi inconsciamente dispettosa. E qualcun altro ancora non ho capito proprio bene cosa è sembrata, perché stava gridando troppo forte e poi insieme con gli altri di cui ti ho già detto, per giunta.
Il tuo ruolo, per me, nel buio dell’officina in cui attacchi a lavorare proprio quando io finisco, sei una specie di semidio, forse lucente, sicuramente miracoloso ai miei occhi. Forgi quelle paginette (che a furia di batterle come ferro incandescente, a dire il vero, si sono fatte più sottili da qualche tempo, ma novità imponenti sono dietro l’angolo) senza sosta, fino a che non è l’ora di farle partire per quell’altra magia, che ha pari solo in Lapponia la notte di Natale, che si chiama distribuzione dei giornali quotidiani italiani.
Le forgi e, per un attimo che dura 24 ore, noi siamo quello. Non c’è pentimento che tenga, correzione last minute, aggiornamento, affastellamento di Anse o di ansie: noi siamo quello che tu forgi per 24 ore. Quando qualcosa va storto, come ieri, nulla toglie alla mia Pollyanna interiore di pensare: che bello quando va tutto bene, però. Che bello che un giornale sia ancora questa magia che tu imponi a un pensiero che per un po’ resta quello che era l’ultima volta che hai voluto farlo, e nient’altro.
Il nostro rapporto, caro tipografo, viene da lontano. Ma non solo perché è più di un anno che siamo come il sole e la luna nei miti greci e ci amiamo, pur non potendoci mai incontrare. Non solo perché il tuo capo, una volta che non dimenticherò mai, mi ha visto nel bel mezzo di una fiera libraria locale. Ero solo, ero spaurito, più che altro non avevo un tavolo su cui poggiarmi. E mi offrì una stanzetta intera piena di tavoli e leccornie di ogni tipo. Anche patatine.
No, il nostro rapporto viene da ancora più lontano. Non voglio fare il modesto con uno che ha appena combinato un casino, la dico tutta: siamo l’anima e il corpo di questo giornale. Se tu non ci fossi, ogni notte, io mi scioglierei come neve al sole di marzo pazzerello. E tu, senza di me, saresti sordo e cieco come una talpa che ha scavato troppo. Ecco, io questo non lo ho pensato subito, stamattina, quando insieme con le dozzine e dozzine di persone che ci comprano ogni mattina e le migliaia e migliaia che pare ci scrocchino nei bar più selezionati di Lecce e Provincia, mi sono accorto del tuo errore. Ma ho aspettato un poco e poi ti ho perdonato. Non farlo mai più. Ti voglio bene,
il tuo giornalista.
17 marzo 2011
I 4 tipi di risorgimentalismo
In edicola con 20centesimi
Per quanto esistano numerosi tipi di risorgimentalismo, sono tutti rappresentati egregiamente dalla sola classe dirigente della nostra piccola Lecce. Magari con un piccolo aiuto da casa da parte della nostra popolazione, sempre nostalgica di un grande passato che forse non ha comunque mai avuto, ma che è molto bello pensare di aver perso. C'è il risorgimentalismo più facile ed usato, che è quello retorico delle nostre istituzioni politiche egemoni, cioè quelle di centrodestra. Comune e Provincia, completamente privi di contenuti e sempre più anche orfani di forme (perlopiù per colpa del virus inoculato del berlusconismo), vanno a nozze - morganatiche - con dei simboli e dei concetti tanto più grandi di loro - come patria, bandiere, inni e libertà - che hanno per giunta la convenienza di ricordare tanto da vicino quelli che avrebbero dovuto rispettare e fare loro, se non fossero mai scesi a patti col berlusconismo, o se Gianfranco Fini non si fosse mai invaghito di Elisabetta Tulliani. Poi c'è il risorgimentalismo, di opposizione: che fa dell'antiretorica una retorica di segno opposto. Quello legittimamente atterrito per la deriva, per la perdita di autocontrollo da parte dei politici egemoni, di cui sopra. E che in occasione di quest'anno ha riconvertito, per i suoi messaggi forti (perlopiù di lotta a leggi ad personam e a meretriciocrazia), gli stessi simboli e lo stesso amor patrio rilucidati dal suo collega di maggioranza. Da qui le manifestazioni pro-costituzione, pur apprezzatissime e a tratti necessarie (soprattutto da porta San Biagio al Castello Carlo V), ma che a qualcuno sono somigliate troppo alle processioni patriottiche di fasce tricolori e divise da vigile urbano (come quella che è andata in onda lunedì 14 per le vie di Lecce). Solo, appunto, caricate di un'energia contraria.
Ancora, c'è il risorgimentalismo degli imprenditori, degli aristocratici non borbonici e degli snob di ogni ceto sociale. Di chi non gliene frega niente di niente, figuriamoci di Garibaldi ferito o di Mazzini esule. Oddio, forse gliene frega anche qualcosa - la sua passioncella per le bande musicali ce l'avrebbe pure. Per quelle bande musicali che fanno il loro dovere, che suonano una musica non pop (che sarebbe troppo, per una moglie radical chic), ma per una volta orecchiabile e sontuosa, ciascuno sul suo strumento e ciascuno a tempo. Ma va nascosta, come un tradimento alla sua personalissima messa in scena della retta via. Farsi scoprire da Liberrima con in mano - non dico un "Viva l'Italia di Aldo Cazzullo - ma anche solo un "Almanacco essenziale dell'Italia unita" di Carlo Fruttero e Massimo Mantellini", sarebbe il massimo sacrilegio. Loro fanno come quando si va su internet dal cellulare, per controllare che sta facendo il Lecce, durante un concerto domenicale di Beethoven in un ex monastero. Battono il tempo dalla Bmw, fermi al semaforo di via XXV Luglio, mentre passa la banda verso il Politeama. Questa terza categoria finisce per essere talmente presa dal dover dare l'impressione di non tenerci affatto all'Unità d'Italia - perdipiù dopo 150 anni suonati - che forse impiega più risorse, logistica e argomenti per evitare cortei o citazioni di Massimo D'Azeglio di quanti ne impiegherebbe a parlarne o a seguire semplicemente la fanfara dell'inno di Mameli coi tacchetti delle Tod's.
Dei neoborbonici tacciamo, almeno per rispetto. Sono listati a lutto: è oggi la loro versione del "giorno di dolore che uno ha". Più silenziosi ancora degli snob, mentre tutti festeggiano per finta la fine del mondo così come lo conoscevano i loro antenati (di cui un certo numero era troppo intento a dissodare zolle per alcuni aristocratici menefreghisti, per rendersi conto del 1861) Ma a quanto pare ce n'è un altro che è più sottocutaneo anche di quello dei tifosi della nazionale che ammortano le spese per le bandiere che accompagnarono la vittoria degli azzurri nell'estate 2006
I più preoccupanti restano una strana deformazione del primo gruppo. Il più ingente "aiuto da casa" che la classe politica al potere da noi abbia avuto. Le associazioni combattentistiche. Le quali hanno decorato la via più risorgimentale di cui disponiamo - Corso Vittorio Emanuele II - come se fosse né più e né meno la sede del fronte del sì in vista di un referendum per un'entrata in guerra. Vetrine di insospettabili pelletterie, come De Lucia, è come se avessero svolto un percorso identitario guerrafondaio, collocando accanto a delle pacifiche borsette, manichini in divisa armati di tutto punto, radiotrasmettitori e baionette compresi. Semplice eccesso di zelo o rigurgito fascista sottocutaneo? Quanto è distante questo al fatto che lo scorso Capodanno dei Popoli alle Cantelmo si intitolò: "Noi italiani"?
Ora ci direte che il risorgimentalismo del vicino è sempre più unitario. Che usiamo queste parole solo per invidia della giubba rossa. In realtà, quello che pensiamo è che 150 possono essere serviti anche alla conquista di poter risorgere individualmente, anche nel buio della propria cameretta. Risorgimento new-age? Risorgimento internet? A ciascuno la sua tipologia di stanza all'Hotel Risorgimento della memoria storica.
Per quanto esistano numerosi tipi di risorgimentalismo, sono tutti rappresentati egregiamente dalla sola classe dirigente della nostra piccola Lecce. Magari con un piccolo aiuto da casa da parte della nostra popolazione, sempre nostalgica di un grande passato che forse non ha comunque mai avuto, ma che è molto bello pensare di aver perso. C'è il risorgimentalismo più facile ed usato, che è quello retorico delle nostre istituzioni politiche egemoni, cioè quelle di centrodestra. Comune e Provincia, completamente privi di contenuti e sempre più anche orfani di forme (perlopiù per colpa del virus inoculato del berlusconismo), vanno a nozze - morganatiche - con dei simboli e dei concetti tanto più grandi di loro - come patria, bandiere, inni e libertà - che hanno per giunta la convenienza di ricordare tanto da vicino quelli che avrebbero dovuto rispettare e fare loro, se non fossero mai scesi a patti col berlusconismo, o se Gianfranco Fini non si fosse mai invaghito di Elisabetta Tulliani. Poi c'è il risorgimentalismo, di opposizione: che fa dell'antiretorica una retorica di segno opposto. Quello legittimamente atterrito per la deriva, per la perdita di autocontrollo da parte dei politici egemoni, di cui sopra. E che in occasione di quest'anno ha riconvertito, per i suoi messaggi forti (perlopiù di lotta a leggi ad personam e a meretriciocrazia), gli stessi simboli e lo stesso amor patrio rilucidati dal suo collega di maggioranza. Da qui le manifestazioni pro-costituzione, pur apprezzatissime e a tratti necessarie (soprattutto da porta San Biagio al Castello Carlo V), ma che a qualcuno sono somigliate troppo alle processioni patriottiche di fasce tricolori e divise da vigile urbano (come quella che è andata in onda lunedì 14 per le vie di Lecce). Solo, appunto, caricate di un'energia contraria.
Ancora, c'è il risorgimentalismo degli imprenditori, degli aristocratici non borbonici e degli snob di ogni ceto sociale. Di chi non gliene frega niente di niente, figuriamoci di Garibaldi ferito o di Mazzini esule. Oddio, forse gliene frega anche qualcosa - la sua passioncella per le bande musicali ce l'avrebbe pure. Per quelle bande musicali che fanno il loro dovere, che suonano una musica non pop (che sarebbe troppo, per una moglie radical chic), ma per una volta orecchiabile e sontuosa, ciascuno sul suo strumento e ciascuno a tempo. Ma va nascosta, come un tradimento alla sua personalissima messa in scena della retta via. Farsi scoprire da Liberrima con in mano - non dico un "Viva l'Italia di Aldo Cazzullo - ma anche solo un "Almanacco essenziale dell'Italia unita" di Carlo Fruttero e Massimo Mantellini", sarebbe il massimo sacrilegio. Loro fanno come quando si va su internet dal cellulare, per controllare che sta facendo il Lecce, durante un concerto domenicale di Beethoven in un ex monastero. Battono il tempo dalla Bmw, fermi al semaforo di via XXV Luglio, mentre passa la banda verso il Politeama. Questa terza categoria finisce per essere talmente presa dal dover dare l'impressione di non tenerci affatto all'Unità d'Italia - perdipiù dopo 150 anni suonati - che forse impiega più risorse, logistica e argomenti per evitare cortei o citazioni di Massimo D'Azeglio di quanti ne impiegherebbe a parlarne o a seguire semplicemente la fanfara dell'inno di Mameli coi tacchetti delle Tod's.
Dei neoborbonici tacciamo, almeno per rispetto. Sono listati a lutto: è oggi la loro versione del "giorno di dolore che uno ha". Più silenziosi ancora degli snob, mentre tutti festeggiano per finta la fine del mondo così come lo conoscevano i loro antenati (di cui un certo numero era troppo intento a dissodare zolle per alcuni aristocratici menefreghisti, per rendersi conto del 1861) Ma a quanto pare ce n'è un altro che è più sottocutaneo anche di quello dei tifosi della nazionale che ammortano le spese per le bandiere che accompagnarono la vittoria degli azzurri nell'estate 2006
I più preoccupanti restano una strana deformazione del primo gruppo. Il più ingente "aiuto da casa" che la classe politica al potere da noi abbia avuto. Le associazioni combattentistiche. Le quali hanno decorato la via più risorgimentale di cui disponiamo - Corso Vittorio Emanuele II - come se fosse né più e né meno la sede del fronte del sì in vista di un referendum per un'entrata in guerra. Vetrine di insospettabili pelletterie, come De Lucia, è come se avessero svolto un percorso identitario guerrafondaio, collocando accanto a delle pacifiche borsette, manichini in divisa armati di tutto punto, radiotrasmettitori e baionette compresi. Semplice eccesso di zelo o rigurgito fascista sottocutaneo? Quanto è distante questo al fatto che lo scorso Capodanno dei Popoli alle Cantelmo si intitolò: "Noi italiani"?
Ora ci direte che il risorgimentalismo del vicino è sempre più unitario. Che usiamo queste parole solo per invidia della giubba rossa. In realtà, quello che pensiamo è che 150 possono essere serviti anche alla conquista di poter risorgere individualmente, anche nel buio della propria cameretta. Risorgimento new-age? Risorgimento internet? A ciascuno la sua tipologia di stanza all'Hotel Risorgimento della memoria storica.
10 marzo 2011
Miracolo in Biblioteca
(In edicola con 20centesimi)
Qualcosa di straordinario accadeva ieri alle sei del pomeriggio, dalle parti di via Cairoli, mentre una piccola folla festante di studenti, guidata da una specie di sciamano - chiaramente il leader del gruppo, a causa se non altro delle occhiaia di gran lunga più profonde di quelle degli altri - avanzava verso una meta che non sembrava altro che la più vicina biblioteca. Com'è usuale in occasioni come queste, le voci più disparate si facevano largo dalla testa del gruppo, fino alle sue ultime fila. Di studente in studente - molti dei quali avevano da poco lasciato la sala studio della biblioteca - le notizie si distorcevano e si amplificavano a dismisura. Chi sosteneva che Simona Manca fosse tornata a "scopare" ["pulire" ndr] nell'atrio veniva fortemente deriso dal resto della ciurma. Troppo poco, con tutto il rispetto. Neanche la matricola dalla media più alta del gruppo avrebbe messo da parte la prospettiva di una scommessa alla Snai per così poco. Altri erano certi addirittura che Moana Pozzi fosse tornata dall'inferno vestita da esponente di Io Sud e stesse forzando la macchinetta delle bibite con successo. In breve, qualcosa di più di un plotone di giovanotti - tutti di sesso maschile, tutti dotati di libri in spalla e di un brio insolito per l'ora - confluiva dalle vie del centro di Lecce in direzione dell'accesso monumentale all'ex Convitto Palmieri. Proprio dove oggi è ospitata la sede della Biblioteca Provinciale, intitolata a un Nicola Bernardini che, forse, non si era mai visto così strettamente sotto assedio, nella sua fortezza di carta e di pietra, come del resto parecchi altri luoghi di cultura di questi tempi.
Ebbene, una volta varcata la soglia della biblioteca, perfino lo sciamano non credeva ai suoi occhi. Eppure, quegli occhi avevano già visto una volta quello che c'era al di là di una semplice porta a vetri. E al di là di qualunque sua fantasia erotica. Poi, era corso ad avvertire gli altri.
In una semplice biblioteca pubblica stava accadendo qualcosa di sovrannaturale. C'erano file - che dico file: orde - che dico orde: eserciti di femmine giovani e belle in costume da bagno. Dai capelli mossi, lisci, biondi e bruni. Dalle tette naturali piccole, dalle tette naturali diversamente piccole. Rifatte male, rifatte bene, rifatte molto bene. Sfilavano prima una ad una, poi pure in gruppetti sul palco della prima sala a sinistra dall'ingresso, quella tradizionalmente votata a presentazioni di libri di Maurizio Maggiani o edificanti workshop sulla Costituzione della Repubblica Italiana, destinati agli allievi delle scuole elementari.
Oltre ai consueti dipinti ad olio d'ispirazione risorgimentale, un telo in fondo spiegava a grandi linee che cosa stava accadendo, mentre i ragazzi si pizzicavano a vicenda, lasciando segni forse indelebili sui loro delicati corpi di studiosi.
"Premio alla bellezza Gran Galá della moda. Fashion & Beauty". Si googla. Ce ne sarà per altre sette "sedute". Sette tardi pomeriggi in paradiso. La fila per il bagno, che già in serate normali è piuttosto ambito, per via del lusso estremo che presenta nei marmi e nelle seditoie, comincia in breve a diventare interminabile. Qualcuno fa pure lo spiritoso. Con tanto di zaini pieni di libri, indicandone il peso, i ragazzi si dicono: "Siamo tutti qui per lo stesso motivo". Un eroe di sincerità: "No, veramente sono qui per tutte ddhre fimmene mezze nude". A un certo punto qualcuno è colto dalla consueta allucinazione fantozziana. Solo, invece di vedere San Pietro sopra la traversa, quel qualcuno afferma di aver visto Giacomo Grippa - presidente dell'Unione Atei Agnostici Razionalisti, sezione di Lecce, frequente utilizzatore dei servizi della biblioteca - scrivere da qualche parte a pennarello: "Dio c'è". [Naturalmente è un'assurda illazione ndr].
Qualcosa di straordinario accadeva ieri alle sei del pomeriggio, dalle parti di via Cairoli, mentre una piccola folla festante di studenti, guidata da una specie di sciamano - chiaramente il leader del gruppo, a causa se non altro delle occhiaia di gran lunga più profonde di quelle degli altri - avanzava verso una meta che non sembrava altro che la più vicina biblioteca. Com'è usuale in occasioni come queste, le voci più disparate si facevano largo dalla testa del gruppo, fino alle sue ultime fila. Di studente in studente - molti dei quali avevano da poco lasciato la sala studio della biblioteca - le notizie si distorcevano e si amplificavano a dismisura. Chi sosteneva che Simona Manca fosse tornata a "scopare" ["pulire" ndr] nell'atrio veniva fortemente deriso dal resto della ciurma. Troppo poco, con tutto il rispetto. Neanche la matricola dalla media più alta del gruppo avrebbe messo da parte la prospettiva di una scommessa alla Snai per così poco. Altri erano certi addirittura che Moana Pozzi fosse tornata dall'inferno vestita da esponente di Io Sud e stesse forzando la macchinetta delle bibite con successo. In breve, qualcosa di più di un plotone di giovanotti - tutti di sesso maschile, tutti dotati di libri in spalla e di un brio insolito per l'ora - confluiva dalle vie del centro di Lecce in direzione dell'accesso monumentale all'ex Convitto Palmieri. Proprio dove oggi è ospitata la sede della Biblioteca Provinciale, intitolata a un Nicola Bernardini che, forse, non si era mai visto così strettamente sotto assedio, nella sua fortezza di carta e di pietra, come del resto parecchi altri luoghi di cultura di questi tempi.
Ebbene, una volta varcata la soglia della biblioteca, perfino lo sciamano non credeva ai suoi occhi. Eppure, quegli occhi avevano già visto una volta quello che c'era al di là di una semplice porta a vetri. E al di là di qualunque sua fantasia erotica. Poi, era corso ad avvertire gli altri.
In una semplice biblioteca pubblica stava accadendo qualcosa di sovrannaturale. C'erano file - che dico file: orde - che dico orde: eserciti di femmine giovani e belle in costume da bagno. Dai capelli mossi, lisci, biondi e bruni. Dalle tette naturali piccole, dalle tette naturali diversamente piccole. Rifatte male, rifatte bene, rifatte molto bene. Sfilavano prima una ad una, poi pure in gruppetti sul palco della prima sala a sinistra dall'ingresso, quella tradizionalmente votata a presentazioni di libri di Maurizio Maggiani o edificanti workshop sulla Costituzione della Repubblica Italiana, destinati agli allievi delle scuole elementari.
Oltre ai consueti dipinti ad olio d'ispirazione risorgimentale, un telo in fondo spiegava a grandi linee che cosa stava accadendo, mentre i ragazzi si pizzicavano a vicenda, lasciando segni forse indelebili sui loro delicati corpi di studiosi.
"Premio alla bellezza Gran Galá della moda. Fashion & Beauty". Si googla. Ce ne sarà per altre sette "sedute". Sette tardi pomeriggi in paradiso. La fila per il bagno, che già in serate normali è piuttosto ambito, per via del lusso estremo che presenta nei marmi e nelle seditoie, comincia in breve a diventare interminabile. Qualcuno fa pure lo spiritoso. Con tanto di zaini pieni di libri, indicandone il peso, i ragazzi si dicono: "Siamo tutti qui per lo stesso motivo". Un eroe di sincerità: "No, veramente sono qui per tutte ddhre fimmene mezze nude". A un certo punto qualcuno è colto dalla consueta allucinazione fantozziana. Solo, invece di vedere San Pietro sopra la traversa, quel qualcuno afferma di aver visto Giacomo Grippa - presidente dell'Unione Atei Agnostici Razionalisti, sezione di Lecce, frequente utilizzatore dei servizi della biblioteca - scrivere da qualche parte a pennarello: "Dio c'è". [Naturalmente è un'assurda illazione ndr].
In ogni caso, Dio solo sa se quello che sta accadendo di là sia opera del migliore dei consulenti dell'Assessorato alla Cultura della Provincia, per incentivo allo studio o qualche altra diavoleria del genere. O se sia solo una delle prime avvisaglie delle reazioni di Simona Manca alla minaccia fantasma di un "testo unico sui beni culturali", che dovrebbe partire a livello regionale "senza che gli assessori alla cultura ne siano stati invitati alla redazione". Certo è che le sue dichiarazioni di ieri non lasciano dubbi sull'impegno che la Manca ha in mente per la cultura salentina. "Non siamo agenzie di eventi, siamo istituzioni che hanno il dovere di fare cultura, non di organizzare spettacoli".Grazie ai nostri amministratori che sono riusciti nella difficile impresa di ricordarci l'altro modo - oltre a pensare troppo alle donne - che, per tradizione, è più efficace per diventare ciechi, o comunque per vederci decisamente meno: studiare troppo.
5 marzo 2011
Le due anime di Lunita Pascal
In edicola con 20Centesimi
Prendere un tè con la fashion designer Lunita Pascal e contemporaneamente con la sua assistente tuttofare, Bruna Pizzichini, non è mica un'esperienza che capiti tutti i giorni. L'occasione ci è stata fornita dall'allestimento di una piccola grande mostra mercato che la Pascal ha organizzato da Doppiozero, l'emporio-bistrot-caffetteria che da qualche mese rende possibili alcune delle più singolari esperienze gastronomiche della scena leccese. Comprese le famose jacked potatoes (patate arrosto ripiene, quintessenzialmente britanniche, quasi più del pudding) introdotte nella nostra dieta dal mitico Fabrizio detto Orso: il solo Mangiafuoco agroalimentare capace di dare vita a tutti quei prosciutti e di quei formaggi.
Mentre Lunita si godeva le attenzioni della stampa e ci accoglieva servendoci tè Lady Grey con biscottini greci (i "Kuluraki", sperando di non incorrere nelle ire di alcuna divinità olimpica, in caso di errori di trascrizione), la povera Bruna allestiva col sudore della fronte il set in cui si sarebbe esibito, a partire dall'indomani, l'estro della sua esigentissima principale. Una vera e propria - seppure elegantissima - Cenerentola fashionista, che non smetteva per un attimo di sistemare cappellini e scarpette su tavoli, pareti, credenze. Il tutto, nel "privé" di Doppiozero, che è già stato spazio per mostre d'are e di design.
A un'ora canonica più canonica per un aperitivo che per un tè, non appena ci siamo accomodati a quei tavoli country francese le identità, i talenti e le occupazioni delle nostre interlocutrici sembravano moltiplicarsi per un gioco di specchi. Già di per sé Lunita è una tipa complicata. Nome di ceppo iberico e dal sapore cangiante, cognome da fisolofo e teologo francese del seicento. Ma anche Bruna, la sua fidata maestranza, non scherza: nome semplice e diretto, cognome di antico lignaggio. Non a caso la sua boss ha un bel da fare per riuscire ad ottenere quello che vuole da cotanta manodopera.
In realtà, a questo punto, se non conosceste personalmente né l'una né l'altra delle nostre ospiti di questo forbito pomeriggio, una cosa ve la dovremmo dire, per coscienza. Non tutti i creativi riescono a tenere a bada un nome d'arte dal carattere forte come Lunita Pascal. E così è capitato alla nostra Bruna Pizzichini, che per continuare ad avere una vita normale (si fa per dire, con tutto quello che fa, monta, smonta e inventa), ha dovuto mettersi al servizio della sua stessa creatività. Finendo inquadrata come dipendente del suo nom de plume, che altri non è che - appunto - Lunita Pascal.
E il bello è che solo in occasioni come questa della mostra mercato di Doppizero (in via Paladini 2, nel pieno centro storico di Lecce) i compiti sono perfettamente ripartiti. Lunita stilista di sciarpe double face di forma ittica (ma molto più profumate del pesce); Bruna ape operaia infaticabile che trasporta scatoloni.
Altre volte, è molto più difficile stabilire chi sia Bruna e chi Lunita. Quale delle due, ad esempio, conduce Radio Gaga su RadioRama: trasmissione cult dedicata alla cultura degli anni '80, in onda ogni domenica sera dalle 22 alla mezzanotte. O chi disegni con tanta grazia un certo fumetto su Facebook. Per non parlare di chi è la fotografa professionista del duo. Sono come una coppia di gemelle, perfettamente identiche nell'aspetto, che si divertono a scambiarsi i ruoli secondo le situazioni e le esigenze. E non è affatto detto che sia sempre Lunita a spuntarla sull'altra, perché l'esperienza e il savoir faire di Bruna non soccombono con facilità ai vezzi e alle vocine dell'altra.
Così, mentre Lunita ci racconta dell'artigiano che cucie alla pelle dei suoi mocassini unisex le suole necessarie perché quei concept di morbidezza e flessibilità siano anche indossabili per una reale passeggiata, Bruna pone le ultime etichette all'interno delle scarpe: "Lunita Pascal.
Made in Lecce". Perché niente è stato demandato all'estero, tranne che il perfetto accento inglese di entrambe. Ma ci sono anche copricapi realizzati ingegnosamente da collant smagliati (da non credere) e borsette talmente delicate che sembrano la cuffietta di una bambina d'antan. Tutti pezzi unici e tutti fatti amano. In più, se non vi basta quello che trovate da Doppiozero potete fare un giro sul sito www.lunitapascal.com, dove potete anche fare acquisti tramite PayPal.
Prendere un tè con la fashion designer Lunita Pascal e contemporaneamente con la sua assistente tuttofare, Bruna Pizzichini, non è mica un'esperienza che capiti tutti i giorni. L'occasione ci è stata fornita dall'allestimento di una piccola grande mostra mercato che la Pascal ha organizzato da Doppiozero, l'emporio-bistrot-caffetteria che da qualche mese rende possibili alcune delle più singolari esperienze gastronomiche della scena leccese. Comprese le famose jacked potatoes (patate arrosto ripiene, quintessenzialmente britanniche, quasi più del pudding) introdotte nella nostra dieta dal mitico Fabrizio detto Orso: il solo Mangiafuoco agroalimentare capace di dare vita a tutti quei prosciutti e di quei formaggi.
Mentre Lunita si godeva le attenzioni della stampa e ci accoglieva servendoci tè Lady Grey con biscottini greci (i "Kuluraki", sperando di non incorrere nelle ire di alcuna divinità olimpica, in caso di errori di trascrizione), la povera Bruna allestiva col sudore della fronte il set in cui si sarebbe esibito, a partire dall'indomani, l'estro della sua esigentissima principale. Una vera e propria - seppure elegantissima - Cenerentola fashionista, che non smetteva per un attimo di sistemare cappellini e scarpette su tavoli, pareti, credenze. Il tutto, nel "privé" di Doppiozero, che è già stato spazio per mostre d'are e di design.
A un'ora canonica più canonica per un aperitivo che per un tè, non appena ci siamo accomodati a quei tavoli country francese le identità, i talenti e le occupazioni delle nostre interlocutrici sembravano moltiplicarsi per un gioco di specchi. Già di per sé Lunita è una tipa complicata. Nome di ceppo iberico e dal sapore cangiante, cognome da fisolofo e teologo francese del seicento. Ma anche Bruna, la sua fidata maestranza, non scherza: nome semplice e diretto, cognome di antico lignaggio. Non a caso la sua boss ha un bel da fare per riuscire ad ottenere quello che vuole da cotanta manodopera.
In realtà, a questo punto, se non conosceste personalmente né l'una né l'altra delle nostre ospiti di questo forbito pomeriggio, una cosa ve la dovremmo dire, per coscienza. Non tutti i creativi riescono a tenere a bada un nome d'arte dal carattere forte come Lunita Pascal. E così è capitato alla nostra Bruna Pizzichini, che per continuare ad avere una vita normale (si fa per dire, con tutto quello che fa, monta, smonta e inventa), ha dovuto mettersi al servizio della sua stessa creatività. Finendo inquadrata come dipendente del suo nom de plume, che altri non è che - appunto - Lunita Pascal.
E il bello è che solo in occasioni come questa della mostra mercato di Doppizero (in via Paladini 2, nel pieno centro storico di Lecce) i compiti sono perfettamente ripartiti. Lunita stilista di sciarpe double face di forma ittica (ma molto più profumate del pesce); Bruna ape operaia infaticabile che trasporta scatoloni.
Altre volte, è molto più difficile stabilire chi sia Bruna e chi Lunita. Quale delle due, ad esempio, conduce Radio Gaga su RadioRama: trasmissione cult dedicata alla cultura degli anni '80, in onda ogni domenica sera dalle 22 alla mezzanotte. O chi disegni con tanta grazia un certo fumetto su Facebook. Per non parlare di chi è la fotografa professionista del duo. Sono come una coppia di gemelle, perfettamente identiche nell'aspetto, che si divertono a scambiarsi i ruoli secondo le situazioni e le esigenze. E non è affatto detto che sia sempre Lunita a spuntarla sull'altra, perché l'esperienza e il savoir faire di Bruna non soccombono con facilità ai vezzi e alle vocine dell'altra.
Così, mentre Lunita ci racconta dell'artigiano che cucie alla pelle dei suoi mocassini unisex le suole necessarie perché quei concept di morbidezza e flessibilità siano anche indossabili per una reale passeggiata, Bruna pone le ultime etichette all'interno delle scarpe: "Lunita Pascal.
Made in Lecce". Perché niente è stato demandato all'estero, tranne che il perfetto accento inglese di entrambe. Ma ci sono anche copricapi realizzati ingegnosamente da collant smagliati (da non credere) e borsette talmente delicate che sembrano la cuffietta di una bambina d'antan. Tutti pezzi unici e tutti fatti amano. In più, se non vi basta quello che trovate da Doppiozero potete fare un giro sul sito www.lunitapascal.com, dove potete anche fare acquisti tramite PayPal.
26 febbraio 2011
Ercole Pignatelli dipinge il nuovo Pirellone
In edicola con 20Centesimi
Sarà Ercole Pignatelli a realizzare la prima opera d'arte esposta nella nuova sede della Regione Lombardia. Come molti suoi amici d'infanzia sanno, Pignatelli è uno dei salentini domiciliati a Milano maggiormente dotati di senso estetico. Certo, seguito a ruota dal designer Fabio Novembre, che però in questo caso ha la scusante di occuparsi, in genere, di decorare spazi ben più piccoli. E poi non è un artista a tutto tondo come Pignatelli. Per questo motivo, nient'altri che il nostro Ercole è stato chiamato a svolgere questo compito molto particolare. Rendere ancora più speciale Palazzo Lombardia, la nuova sede istituzionale - alta 161 metri e rotti - di un'amministrazione regionale artisticamente molto avanti. Come farà Pignatelli a realizzare la sua missione? Riuscirà a riqualificare l'immagine dell'edificio di calcestruzzo armato più alto d'Italia, la cui costruzione ha causato l'abbattimento di uno dei più begli esempi di giardino urbano milanese, e 15.000 firme di protesta da parte dei residenti del quartiere Garibaldi-Repubblica? Che tecnica utilizzerà?
Naturalmente, lo farà nel modo in cui gli è più congeniale: ricoprire di ramificazioni fitomorge violacee due pareti di cartongesso da 18 metri per 3 e 16 metri per 3, collocate in uno dei sei ingressi di Palazzo Lombardia.
I soliti leccesi geneticamente incapaci di celebrare il talento di un loro conterraneo, avranno tirato un sospiro di sollievo, all'idea che non sarà un altro luogo pubblico situato nella loro città ad essere beneficiato dall'intervento della mano di Pignatelli.
I lettori dotati di molto meno senso estetico rispetto al Maestro ricorderanno forse "Germinazioni" il gruppo scultoreo di cui, in una recente incursione, ha dotato la sua città d'origine, fra l'altro riuscendo a centrare l'obiettivo - praticamente impossibile - di non riuscire a riqualificare neanche un rondò superstradale semidesertico, nella periferia Nord di Lecce. Non gli avevamo chiesto di rifare piazza Duomo, per intenderci. E menomale. Qualche lettore particolarmente affezionato ricorderà il modo in cui eravamo riusciti a venire a capo della complessa iconografia del gruppo scultoreo, dopo qualche giorno di perplessità muta. Avevamo spiegato come l'agglomerato effetto pietra leccese, non fosse altro che "una metafora alla De Andrè ['dal letame nascono i fior' ndr], appena deposta in quantità industriale dai due uccelli che torreggiano in cima all'opera d'arte".
Neanche le più orrorifiche visioni dell'inferno che un ciellino come Roberto Formigoni deve covare in sé, potranno rendere giustizia al lavoro di giornate e giornate trascorse sui ponteggi alti 4 metri, da parte di un Pignatelli lasciato libero a inseguire la sua ispirazione e la sua verve, particolarmente affezionata agli intrichi di vegetali e di corpi femminili.
Uno dei drammi della storiografia artistica moderna è rappresentato da quello che ignoriamo sulle esitazioni, sui pentimenti, in una parola sul backstage dei grandi capolavori della figurazione. L'esempio da manuale è la suggestione immensa che esercitano da secoli nei confronti di critici, conoscitori, artisti, registi le 450 giornate di lavorazione che costò a Michelangelo il Giudizio Universale in Sistina.
Per fortuna, non sarà questo il caso del monumentale cartongesso di Ercole Pignatelli a Palazzo Lombardia. Non saranno documentate solo le prime pennellate inaugurali inferte alla parete da Roberto Formigoni in persona. Per inciso, l'episodio è realmente accaduto nei giorni scorsi e ha portato alla realizzazione, anche grazie all'occhio del Maestro che seguiva da presso l'Allievo, di "un tronco d'albero di colore blu oltremare e un grappolo d'uva viola bordeaux". Ogni giorno di lavoro, dalle 10 alle 14, fino al 20 marzo o comunque fino a che l'opera non sarà giudicata compiuta dal Maestro, tutto quello che avverrà fra Ercole Pignatelli e la parete bianca sarà ripresa dalla videocamera del figlio di suo figlio Daniele. Il risultato di tanto amore filiale e finanziamento regionale sarà distribuito tramite pratico cofanetto libro + dvd.
Sarà Ercole Pignatelli a realizzare la prima opera d'arte esposta nella nuova sede della Regione Lombardia. Come molti suoi amici d'infanzia sanno, Pignatelli è uno dei salentini domiciliati a Milano maggiormente dotati di senso estetico. Certo, seguito a ruota dal designer Fabio Novembre, che però in questo caso ha la scusante di occuparsi, in genere, di decorare spazi ben più piccoli. E poi non è un artista a tutto tondo come Pignatelli. Per questo motivo, nient'altri che il nostro Ercole è stato chiamato a svolgere questo compito molto particolare. Rendere ancora più speciale Palazzo Lombardia, la nuova sede istituzionale - alta 161 metri e rotti - di un'amministrazione regionale artisticamente molto avanti. Come farà Pignatelli a realizzare la sua missione? Riuscirà a riqualificare l'immagine dell'edificio di calcestruzzo armato più alto d'Italia, la cui costruzione ha causato l'abbattimento di uno dei più begli esempi di giardino urbano milanese, e 15.000 firme di protesta da parte dei residenti del quartiere Garibaldi-Repubblica? Che tecnica utilizzerà?
Naturalmente, lo farà nel modo in cui gli è più congeniale: ricoprire di ramificazioni fitomorge violacee due pareti di cartongesso da 18 metri per 3 e 16 metri per 3, collocate in uno dei sei ingressi di Palazzo Lombardia.
I soliti leccesi geneticamente incapaci di celebrare il talento di un loro conterraneo, avranno tirato un sospiro di sollievo, all'idea che non sarà un altro luogo pubblico situato nella loro città ad essere beneficiato dall'intervento della mano di Pignatelli.
I lettori dotati di molto meno senso estetico rispetto al Maestro ricorderanno forse "Germinazioni" il gruppo scultoreo di cui, in una recente incursione, ha dotato la sua città d'origine, fra l'altro riuscendo a centrare l'obiettivo - praticamente impossibile - di non riuscire a riqualificare neanche un rondò superstradale semidesertico, nella periferia Nord di Lecce. Non gli avevamo chiesto di rifare piazza Duomo, per intenderci. E menomale. Qualche lettore particolarmente affezionato ricorderà il modo in cui eravamo riusciti a venire a capo della complessa iconografia del gruppo scultoreo, dopo qualche giorno di perplessità muta. Avevamo spiegato come l'agglomerato effetto pietra leccese, non fosse altro che "una metafora alla De Andrè ['dal letame nascono i fior' ndr], appena deposta in quantità industriale dai due uccelli che torreggiano in cima all'opera d'arte".
Neanche le più orrorifiche visioni dell'inferno che un ciellino come Roberto Formigoni deve covare in sé, potranno rendere giustizia al lavoro di giornate e giornate trascorse sui ponteggi alti 4 metri, da parte di un Pignatelli lasciato libero a inseguire la sua ispirazione e la sua verve, particolarmente affezionata agli intrichi di vegetali e di corpi femminili.
Uno dei drammi della storiografia artistica moderna è rappresentato da quello che ignoriamo sulle esitazioni, sui pentimenti, in una parola sul backstage dei grandi capolavori della figurazione. L'esempio da manuale è la suggestione immensa che esercitano da secoli nei confronti di critici, conoscitori, artisti, registi le 450 giornate di lavorazione che costò a Michelangelo il Giudizio Universale in Sistina.
Per fortuna, non sarà questo il caso del monumentale cartongesso di Ercole Pignatelli a Palazzo Lombardia. Non saranno documentate solo le prime pennellate inaugurali inferte alla parete da Roberto Formigoni in persona. Per inciso, l'episodio è realmente accaduto nei giorni scorsi e ha portato alla realizzazione, anche grazie all'occhio del Maestro che seguiva da presso l'Allievo, di "un tronco d'albero di colore blu oltremare e un grappolo d'uva viola bordeaux". Ogni giorno di lavoro, dalle 10 alle 14, fino al 20 marzo o comunque fino a che l'opera non sarà giudicata compiuta dal Maestro, tutto quello che avverrà fra Ercole Pignatelli e la parete bianca sarà ripresa dalla videocamera del figlio di suo figlio Daniele. Il risultato di tanto amore filiale e finanziamento regionale sarà distribuito tramite pratico cofanetto libro + dvd.
17 gennaio 2011
La Focara degli zozzi e del bunga bunga
In edicola con 20centesimi
La Focara 2011, dopo un po' di entusiasmo iniziale, si è rivelata la stessa Focara di sempre: la più importante kermesse di fascine d'Italia. Anche presso noi blasé venticentesimali, dobbiamo ammetterlo, certi comunicati stampa sul rinnovamento gastronomico Focara avevano lasciato il segno. Proprio lo spauracchio da "congresso nazionale degli zozzi", invocato nel nostro pezzo di anteprima di sabato - solo per distruggerlo a colpi di solenni promesse di ingredienti "a chilometro zero" e tipicità garantite - si è purtroppo rivelato più reale che mai. Anzi, più che in ogni altra edizione, proprio quest'anno le infinite varianti sulle stesse ricette (dal panino al cordon bleu al panino al wurstel) hanno saputo varcare i semplici confini regionali, e spingersi fino a permettere alla timida camionetta di Felline, quella di sotto la chiesa (deserta quasi tutto l'anno: con un ristorante pro-capite, in paese, vorrei ben vedere) di rivaleggiare con le più ambite concorrenti del salernitano e del casertano. Una vera e propria convention che si è svolta nel massimo rispetto delle divergenze di idee ("il piccante lo metti prima o dopo la fettina?" - "la servola va bollita o piastrata divisa in due?") ma che purtroppo non ha prodotto i risultati che gli organizzatori promettevano, almeno dal punto di vista della convergenza territoriale. Una sola rivincita hanno saputo prendersi, però, gli spettatori non allineati, quegli eterni esploratori della malizia: quelli della cena al sacco portata da casa. I soliti ignobili - diranno i fittiani, orfano com'erano del loro fratello-padrone, rimasto in casa per via di un'improvvisa febbre. I soliti ignobili, comunque, hanno notato un piccolo dettaglio che ha saputo deliziare loro e, tutto sommato, divertire anche i meno inclini alla sfiducia all'attuale governo, e ai fischi ai suoi rappresentanti o sostenitori locali.
Al termine del concertone di "Elio e le storie tese", quindi, svanisce la paura di aver fatto del tutto inutilmente la strada a piedi praticamente dall'altezza di Villa Convento.
Un elemento la fa da padrone nei cuori di questi partecipanti più attenti, di quelli che non si fanno prendere per il naso da un crepparo acrobatico e non ringraziano a ripetizione Sant'Antonio Abate, solo perché hanno ritrovato il venditore barese di padelle antiaderenti dello scorso anno, allo stesso prezzo. Questo elemento è quel cavallo di Troia di un Elio, che è riuscito a far passare un suo canto in particolare non solo davanti al naso di Antonio Gabellone, di Rocco Palese (forse l'unico davvero cosciente dell'affronto subito, o semplicemente il più annoiato di tutti) ma anche di quello del committente principale del concerto stesso, il sindaco-farmacista di Novoli, Oscar Marzo Vetrugno.
Nessuno ha pagato per vedere il concerto degli Elii, ma sarebbe stato comunque impagabile vederli cantar "Canta canta con Lele, balla balla con Fede, se non stai attento vai in galera per colpa dell'Africa". Semplice, geniale, il bunga bunga della Focara, il bunga bunga del fuoco che brucia la noia con un retrogusto di svampa di salsiccia tribale. E restituisce il dono della danza anche a chi sta ancora digerendo la cena.
Come c'era da aspettarsi, all'indomani del giorno clou della Focara di Novoli, i maggiori quotidiani locali hanno ci hanno banchettato, con titoli e pezzi di cui i mali minori erano "Pienone di fedeli" o "Una festa che dura tutta la notte". Guai a sentire parlare del bunga. Questo rientra in una certa prassi giornalistica e non ce ne meravigliamo più. Abbiamo sviluppato una sorta di immunità al sospetto di piaggeria nelle articolesse dei migliori numeri del Quotidiano di Lecce, "Nuovo" solo gattopardescamente, perché niente cambi. O anche dei peggiori numeri della Gazzetta del Mezzogiorno, soprattutto quelli del lunedì. In verità, non crediamo neanche più a quella taccia iniziale di leccaculismo che avvolge quasi tutti i contributi del genere (dall'entusiasmo per la riqualificazione di San Cataldo a quello per l'edera sui pali del filobus). La spiegazione di tutto questo è che semplicemente non sempre si sa cosa scrivere, sui giornali, e che ogni nuovo argomento da trattare, per quanto trito e ciclico, è talmente benvenuto che l'entusiasmo che si sprigiono all'atto della sua adozione da parte dell'articolista è già un mezzo elogio. Il resto, se c'è, lo fa la panza piena.
(DA TIC & TRIBU' dello stesso giorno)
Come sempre, una delle attrazioni della Focara e dintorni sono le proposte commerciali di bancarelle di ogni tipo. Ogni anno è praticamente impossibile, per le addette ai lavori domestici, non cedere alla suggestione che le proprie condizioni di vita saranno cambiate per sempre, grazie a una spugnetta magica o a un mattarello telescopico. Un po' come avviene per le promesse dei politici sul futuro di eventi come la Focara stessa, del resto. In questi giorni la star è la spugnetta antimacchia di una signora che, al contrario dei tanti baresi microfonati, che propongono a loop le loro retoriche commerciali, semplicemente si rifiuta di fornire spiegazioni sull'uso della sua mercanzia.
La Focara 2011, dopo un po' di entusiasmo iniziale, si è rivelata la stessa Focara di sempre: la più importante kermesse di fascine d'Italia. Anche presso noi blasé venticentesimali, dobbiamo ammetterlo, certi comunicati stampa sul rinnovamento gastronomico Focara avevano lasciato il segno. Proprio lo spauracchio da "congresso nazionale degli zozzi", invocato nel nostro pezzo di anteprima di sabato - solo per distruggerlo a colpi di solenni promesse di ingredienti "a chilometro zero" e tipicità garantite - si è purtroppo rivelato più reale che mai. Anzi, più che in ogni altra edizione, proprio quest'anno le infinite varianti sulle stesse ricette (dal panino al cordon bleu al panino al wurstel) hanno saputo varcare i semplici confini regionali, e spingersi fino a permettere alla timida camionetta di Felline, quella di sotto la chiesa (deserta quasi tutto l'anno: con un ristorante pro-capite, in paese, vorrei ben vedere) di rivaleggiare con le più ambite concorrenti del salernitano e del casertano. Una vera e propria convention che si è svolta nel massimo rispetto delle divergenze di idee ("il piccante lo metti prima o dopo la fettina?" - "la servola va bollita o piastrata divisa in due?") ma che purtroppo non ha prodotto i risultati che gli organizzatori promettevano, almeno dal punto di vista della convergenza territoriale. Una sola rivincita hanno saputo prendersi, però, gli spettatori non allineati, quegli eterni esploratori della malizia: quelli della cena al sacco portata da casa. I soliti ignobili - diranno i fittiani, orfano com'erano del loro fratello-padrone, rimasto in casa per via di un'improvvisa febbre. I soliti ignobili, comunque, hanno notato un piccolo dettaglio che ha saputo deliziare loro e, tutto sommato, divertire anche i meno inclini alla sfiducia all'attuale governo, e ai fischi ai suoi rappresentanti o sostenitori locali.
Al termine del concertone di "Elio e le storie tese", quindi, svanisce la paura di aver fatto del tutto inutilmente la strada a piedi praticamente dall'altezza di Villa Convento.
Un elemento la fa da padrone nei cuori di questi partecipanti più attenti, di quelli che non si fanno prendere per il naso da un crepparo acrobatico e non ringraziano a ripetizione Sant'Antonio Abate, solo perché hanno ritrovato il venditore barese di padelle antiaderenti dello scorso anno, allo stesso prezzo. Questo elemento è quel cavallo di Troia di un Elio, che è riuscito a far passare un suo canto in particolare non solo davanti al naso di Antonio Gabellone, di Rocco Palese (forse l'unico davvero cosciente dell'affronto subito, o semplicemente il più annoiato di tutti) ma anche di quello del committente principale del concerto stesso, il sindaco-farmacista di Novoli, Oscar Marzo Vetrugno.
Nessuno ha pagato per vedere il concerto degli Elii, ma sarebbe stato comunque impagabile vederli cantar "Canta canta con Lele, balla balla con Fede, se non stai attento vai in galera per colpa dell'Africa". Semplice, geniale, il bunga bunga della Focara, il bunga bunga del fuoco che brucia la noia con un retrogusto di svampa di salsiccia tribale. E restituisce il dono della danza anche a chi sta ancora digerendo la cena.
Come c'era da aspettarsi, all'indomani del giorno clou della Focara di Novoli, i maggiori quotidiani locali hanno ci hanno banchettato, con titoli e pezzi di cui i mali minori erano "Pienone di fedeli" o "Una festa che dura tutta la notte". Guai a sentire parlare del bunga. Questo rientra in una certa prassi giornalistica e non ce ne meravigliamo più. Abbiamo sviluppato una sorta di immunità al sospetto di piaggeria nelle articolesse dei migliori numeri del Quotidiano di Lecce, "Nuovo" solo gattopardescamente, perché niente cambi. O anche dei peggiori numeri della Gazzetta del Mezzogiorno, soprattutto quelli del lunedì. In verità, non crediamo neanche più a quella taccia iniziale di leccaculismo che avvolge quasi tutti i contributi del genere (dall'entusiasmo per la riqualificazione di San Cataldo a quello per l'edera sui pali del filobus). La spiegazione di tutto questo è che semplicemente non sempre si sa cosa scrivere, sui giornali, e che ogni nuovo argomento da trattare, per quanto trito e ciclico, è talmente benvenuto che l'entusiasmo che si sprigiono all'atto della sua adozione da parte dell'articolista è già un mezzo elogio. Il resto, se c'è, lo fa la panza piena.
(DA TIC & TRIBU' dello stesso giorno)
Come sempre, una delle attrazioni della Focara e dintorni sono le proposte commerciali di bancarelle di ogni tipo. Ogni anno è praticamente impossibile, per le addette ai lavori domestici, non cedere alla suggestione che le proprie condizioni di vita saranno cambiate per sempre, grazie a una spugnetta magica o a un mattarello telescopico. Un po' come avviene per le promesse dei politici sul futuro di eventi come la Focara stessa, del resto. In questi giorni la star è la spugnetta antimacchia di una signora che, al contrario dei tanti baresi microfonati, che propongono a loop le loro retoriche commerciali, semplicemente si rifiuta di fornire spiegazioni sull'uso della sua mercanzia.
5 gennaio 2011
Dov'è finita la Befana?
In edicola con 20Centesimi
Non sono tempi facili per la Befana. La sua figura, un tempo tanto diffusa e simbolica, è ormai da annoverare fra le razze ultraterrene in via d'estinzione. Guai se a un bambino di oggi mancasse un elfo da comodino o un Babbo Natale da balcone. La Befana, invece, è la prima rinuncia iconografica di ogni famiglia contemporanea, quanto è alle prese con le feste e con la crisi. La fa da padrona solo nella romana piazza Navona dove, a dire il vero, dove non c'è una bancarella del mercatino natalizio che, accanto ai pupi del presepe, non vanti una o più versioni elettroniche della sua rappresentazione tradizionale: pupazzone urlanti, sghignazzanti, dagli occhi verdi come led o solo, semplicemente, molto brutte di faccia e di fisico. A Lecce la Befana è stata avvistata giusto da Avio, non a caso incrollabile baluardo baristico della concretezza contro il decorativismo. Sono però bambole tristi, quasi impaurite. Hanno poco della sfrontatezza autentica del personaggio che riproducono - stancamente. Lo sanno tutti che il grosso è contenuto nei calzettoni (esposti accanto) e che pochissimi clienti andranno a frugare fra le loro gonne per ottenere qualsivoglia dolcezza.
Purtroppo, essendo la nostra Befana molto meno fotogenica di un panda, sarà difficile far sì che un WWF si adoperi per la sua salvaguardia (eppure Santa Lucia solo sa se ne sarebbe bisogno, vista la fine che ha fatto lei, lei da cui tutto è cominciato: la prima presenza soprannaturale a portare doni ai bambini). Alcuni sostengono che questa vecchia signora sta pagando duramente la sua indifferenza mediatica; il suo storico rifiuto delle scene e dagli spot commerciali; il suo stesso significato originario, pregno di cultura underground poco alla moda (leggi: paganesimo rivisitato). Si dice, infatti, che la Befana abbia un'origine antichissima e che sia nata per morire. Cioè per incarnare, ciclicamente, la vecchiezza di un anno che se ne va: in brandelli. Un anno che almeno, tuttavia, ha il coraggio di andarsene, di concludersi, di essere sottoposto al vaglio di bilanci, riflessioni, pentimenti o soddisfazioni. Non come accade oggi. Gli stessi, sostengono che parta da qui l'inizio della decadenza befanesca: da questa negazione o falsificazione dei bilanci.
Insomma, quanto è svantaggiata questa povera donna non solo rispetto alla figura così rilassatamente markettara di un Babbo Natale, ma anche e soprattutto rispetto a una serie di presenze femminili altamente concorrenziali. Prime fra tutte: le vampirelle giovani e sexy che la televisione e il cinema hanno saputo rendere oggetto di culto.
La Befana è da sempre la dark lady delle feste comandate. Il lato oscuro delle celebrazioni. Il coté crepuscolare del buonismo natalizio. E' la voglia di mettere in dubbio ogni nostra certezza e credenza, a partire da quella nella bellezza fisica dei nostri eroi. Le protagoniste di tante serie tv basate sul lato oscuro dell'estetica, amano vincere facile grondando sangue, ma truccate alla perfezione; inseguendo il male, ma uscendo in foto sempre così bene. Con coraggio da vendere e carbone in quantità industriali, la Befana sola ha conservato la capacità di irridere tanto le Famiglie Cuore sanguinolente (vedi: la saga di Twilight) quanto le Barbie dei modelli televisivi tradizionali.
Fino a qualche anno fa "che ti porta la Befana?" resisteva come uno di quei modi di dire retrò che fanno tanto nonna-chic, alla stregua di "metti il pane nella ghaicciaia" (invece che nel frigo), o "ci vediamo in piazza trecentomila" (piuttosto che in piazza Mazzini). Oggi non c'è più neanche questo, e sono sempre meno i genitori che minacciano i propri figli con eventuali delusioni da parte di lei. Eppure, solo la Befana è capace di portare realmente nient'altro che carbone, seppure dolce, a chi non merita altro. Non solo più antiestetica, ma anche storicamente più tirchia, dunque, rispetto a Babbo Natale. E' come se a una figura maschile come Santa Claus si potessero perdonare tutti i difetti che pur possiede (e non sono pochi, dalla barba incolta al pancione, alla stessa età avanzata). E alla Befana, che ha solo quello della bruttezza fisica, oltre a una dirittura morale impeccabile, non si perdona nulla. Adottate una Befana: non sapete quanto possono essere generose le donne racchie quando ricevono la giusta dose di affetto.
Non sono tempi facili per la Befana. La sua figura, un tempo tanto diffusa e simbolica, è ormai da annoverare fra le razze ultraterrene in via d'estinzione. Guai se a un bambino di oggi mancasse un elfo da comodino o un Babbo Natale da balcone. La Befana, invece, è la prima rinuncia iconografica di ogni famiglia contemporanea, quanto è alle prese con le feste e con la crisi. La fa da padrona solo nella romana piazza Navona dove, a dire il vero, dove non c'è una bancarella del mercatino natalizio che, accanto ai pupi del presepe, non vanti una o più versioni elettroniche della sua rappresentazione tradizionale: pupazzone urlanti, sghignazzanti, dagli occhi verdi come led o solo, semplicemente, molto brutte di faccia e di fisico. A Lecce la Befana è stata avvistata giusto da Avio, non a caso incrollabile baluardo baristico della concretezza contro il decorativismo. Sono però bambole tristi, quasi impaurite. Hanno poco della sfrontatezza autentica del personaggio che riproducono - stancamente. Lo sanno tutti che il grosso è contenuto nei calzettoni (esposti accanto) e che pochissimi clienti andranno a frugare fra le loro gonne per ottenere qualsivoglia dolcezza.
Purtroppo, essendo la nostra Befana molto meno fotogenica di un panda, sarà difficile far sì che un WWF si adoperi per la sua salvaguardia (eppure Santa Lucia solo sa se ne sarebbe bisogno, vista la fine che ha fatto lei, lei da cui tutto è cominciato: la prima presenza soprannaturale a portare doni ai bambini). Alcuni sostengono che questa vecchia signora sta pagando duramente la sua indifferenza mediatica; il suo storico rifiuto delle scene e dagli spot commerciali; il suo stesso significato originario, pregno di cultura underground poco alla moda (leggi: paganesimo rivisitato). Si dice, infatti, che la Befana abbia un'origine antichissima e che sia nata per morire. Cioè per incarnare, ciclicamente, la vecchiezza di un anno che se ne va: in brandelli. Un anno che almeno, tuttavia, ha il coraggio di andarsene, di concludersi, di essere sottoposto al vaglio di bilanci, riflessioni, pentimenti o soddisfazioni. Non come accade oggi. Gli stessi, sostengono che parta da qui l'inizio della decadenza befanesca: da questa negazione o falsificazione dei bilanci.
Insomma, quanto è svantaggiata questa povera donna non solo rispetto alla figura così rilassatamente markettara di un Babbo Natale, ma anche e soprattutto rispetto a una serie di presenze femminili altamente concorrenziali. Prime fra tutte: le vampirelle giovani e sexy che la televisione e il cinema hanno saputo rendere oggetto di culto.
La Befana è da sempre la dark lady delle feste comandate. Il lato oscuro delle celebrazioni. Il coté crepuscolare del buonismo natalizio. E' la voglia di mettere in dubbio ogni nostra certezza e credenza, a partire da quella nella bellezza fisica dei nostri eroi. Le protagoniste di tante serie tv basate sul lato oscuro dell'estetica, amano vincere facile grondando sangue, ma truccate alla perfezione; inseguendo il male, ma uscendo in foto sempre così bene. Con coraggio da vendere e carbone in quantità industriali, la Befana sola ha conservato la capacità di irridere tanto le Famiglie Cuore sanguinolente (vedi: la saga di Twilight) quanto le Barbie dei modelli televisivi tradizionali.
Fino a qualche anno fa "che ti porta la Befana?" resisteva come uno di quei modi di dire retrò che fanno tanto nonna-chic, alla stregua di "metti il pane nella ghaicciaia" (invece che nel frigo), o "ci vediamo in piazza trecentomila" (piuttosto che in piazza Mazzini). Oggi non c'è più neanche questo, e sono sempre meno i genitori che minacciano i propri figli con eventuali delusioni da parte di lei. Eppure, solo la Befana è capace di portare realmente nient'altro che carbone, seppure dolce, a chi non merita altro. Non solo più antiestetica, ma anche storicamente più tirchia, dunque, rispetto a Babbo Natale. E' come se a una figura maschile come Santa Claus si potessero perdonare tutti i difetti che pur possiede (e non sono pochi, dalla barba incolta al pancione, alla stessa età avanzata). E alla Befana, che ha solo quello della bruttezza fisica, oltre a una dirittura morale impeccabile, non si perdona nulla. Adottate una Befana: non sapete quanto possono essere generose le donne racchie quando ricevono la giusta dose di affetto.
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