In edicola con 20Centesimi
Pochi programmi cartacei di una serata musicale sono stati cari al povero cronista culturale come quello fortunatamente elargito al pubblico di “Ulysse dans le vagues” e “Anemos - Musiche dal mito”, giovedì, al Teatro Paisiello di Lecce. Abbiamo visto coi nostri occhi più e più serate salentine musicalmente impegnate. La nonchalance con cui il pubblico medio - che, di norma, a occasioni come queste viene trascinato per ricatto sessuale o per un errore nella prenotazione - reagisce al concetto stesso di “programma” della serata con orrore e raccapriccio. “Perché dovrei leggere su carta, e per giunta al buio, una descrizione il più possibile accurata e dettagliata della rottura di palle che sono costretto a sorbirmi?” - sembrano dire gli occhi disperati di tanti uomini di mezza età perfettamente vestiti, che scambiano con un po’ troppa disinvoltura la chiara possibilità di fare luce sulla serata che li aspetta (con annessa la possibilità di distrarsi legittimamente dalla stessa) con un raddoppiamento di qualcosa che è già tanto forzoso e poco entusiasmante. Una ridondanza della rottura di palle, insomma.
Non poteva purtroppo essere così per i tanti non addetti ai lavori pervenuti, loro malgrado, alla serata di ieri. Fortemente voluta dal Dipartimento di Filologia Classica e di Scienze Filosofiche dell’Università del Salento, che aveva messo a disposizione i suoi maggiori talenti francofoni, la proposta musicale del Coro Polifonico della stessa Università, in un certo senso, obbligava alla lettura matta e disperata di quei programmi, dettagliatissimi, curati per il IV Congresso Internazionale della “International Society for the study of Greek and Roman Music and its cultural heritage”. Dei veri e propri libretti: per giunta, in sole due lingue: greco antico a fronte e francese moderno ma non troppo. Sono bastati pochi minuti di recita perché l’immersione pressoché totale in quei testi passasse da semplice diversivo a unico modo per sopravvivere. Che quelle pagine fossero ovviamente incomprensibili, tanto nella versione originale greca, quanto in quella francese, non rendeva l’istinto di leggere meno necessario per le menti della platea e dei palchetti. Il fatto è questo. Giovedì non era soltanto una questione di difficoltà pura, come solo la traduzione francese di un agone aedico e monodico greco può esserlo(accompagnata con krar, flauto e qanoun, per giunta).
Il pubblico diviso a metà, quasi tranciato di netto, fra totalmente casuali e/o cazzari e totalmente secchioni, non rendeva possibile, nella pratica, alcuna delle tipiche attività che, in serate come questa, aiutano metà del pubblico ad ammazzare il tempo, o ad ammazzare l’altra metà, cioè le mogli professanti melomania che ce lo ha condotto. Mai si era vista a Lecce una simile quantità di “tecnici” della musica in platea. L’ansia da prestazione, già altissima prima ancora di prendere posto, è schizzata fino al livello degli affreschi tardo-settecenteschi dello splendido soffitto del teatro, non appena i “tecnici” hanno cominciato a parlare fra loro del programma. I termini come “parodo” e “si bemolle” si sprecavano; mentre addirittura i nomi di battesimo dei tenori del coro serpeggiavano, seminando il panico totale a partire dalle terze e quarte file. Una volta iniziato lo spettacolo, non è volata una mosca. Ma neanche nel buio indistinto dei palchetti, normalmente il regno incontrastato della distrazione e degli smartphone selvaggi, la situazione era di molto migliore. I secchioni più inclini a salire le scale avevano già preso posto in palchetti già occupati da cazzari. I quali, essendo cazzari, erano anche convinti di poter pretendere tutto per sé e la propria compagna melomane un palco intero. I secchioni, essendo secchioni, e sapendo perfettamente di trovarsi di fronte a una serata gratuita e imprenotabile, pretendevano giustamente di fare irruzione in uno di quei palchi solo semipieni.
La situazione salvava, in pratica, solo una categoria: gli ignoranti musicali abbastanza distinti e abbastanza ben vestiti da poter sembrare dei melomani a loro volta. I più cazzari di tutti. Ogni altra categoria, compreso il sottoscritto, è ancora sospesa in un limbo di erre mosce, suoni flautati e occhiatacce. Non mi ero mai sentito così inadeguato a una recita in francese accompagnata da qanoun in vita mia.
31 ottobre 2010
Cos'è davvero il Bunga Bunga
In edicola con 20Centesimi
Sono giorni di forte, intenso bunga bunga. Lo si avverte in Parlamento, dove non sembra si conosca miglior modo di annunciare l'esito di una votazione, quando va al contrario di quello che si sperava. Lo si apprende negli uffici dei commercialisti, ogni volta che un modello unico viene metaforicamente consegnato nell'altrettanto unico posto in cui procurerà il maggior dolore possibile al contribuente di turno. Lo sanno perfino negli spogliatoi dei migliori campetti sportivi leccesi, dove, giusto ieri, colti certamente dall'euforia di una vittoria a calcetto, e dallo spirito del tempo, è stato possibile osservare il fior fiore di professionisti agitare pelvicamente il proprio corpo nudo e affaticato, quasi sfidandosi l'un l'altro a singolar tenzone: "Bunga Bunga", in tutti e tre i casi, era il grido comune. Dapprima è cominciato in sordina, questo rumore ora assordante, come un tam tam (certo, parente stretto del bunga bunga; ma più diretto, frontale, meno subdolo e molto meno retroattivo); ma un tam che ha avuto successo: un tam tam che ha saputo brillantemente valicare i confini del suo villaggio di origine (se non africano, almeno brianzolo), per fare il suo trionfale ingresso nell'immaginario degli scemi del villaggio globale. Che un altro fatto sia indice del successo che questa iterazione (due sole volte, la massima efficacia col minimo sforzo: parola d'ordine, ottimizzare) di suoni e di suggestioni sta avendo nel nostro paese, da quando è stato associato al personal branding involontario del nostro Presidente del Consiglio (in carica). Giusto ieri, perfino uno dei giornali attualmente meglio scritti d'Italia - la Stampa di Torino - nelle sole prime 3 pagine della sua edizione nazionale cita già in due fondamentali occasioni il bunghismo. La prima è opera del magistero umoristico di Massimo Gramellini che, con straordinaria presenza di spirito associa le esagerazioni che, anni fa, occupandosi di riportare dalla Napoli di Maradona le imprese tutt'altro che tecnicamente sportive del fuoriclasse argentino, ipotizzava che nessun altro meglio di Diego potesse impersonale l'aberrazione dei desideri, delle aspettative e dei sogno dell'italiano medio come lui. L'ammissione di essersi sbagliato è un colpo di scena giornalistico di una classe ineguagliabile.
Ma cosa è davvero il Bunga Bunga? Continuamo a chiedercelo ancora, anche adesso che abbiamo chiarito sufficientemente chi ci sia dietro l'operazione e tutti i giri di metafore e di applicazioni nella vita pratica che ne derivano. Non basta neanche Urban Dictionary, una vera e propria sorta di Accademia della Crusca per tutto ciò che sfugge ai dizionari di carta ed è colto perfettamente da quella particolare versione della "vita di strada" che è internet. Il fatto che questa fonte sia di respiro ampio e internazionale, già la dice lunga sulla straordinaria bravura che ha avuto quel grande brand manager di se stesso. Recita Urban Dictionary: "Bunga-bunga: stupro di gruppo anale e selvaggiamente brutale. Leggendaria punizione per la violazione di domicilio presso tribù africane non accreditate".
Il bunga bunga è fra noi, è ovunque. Il bunga bunga e nell'essere falso e cortese che ci dorme affianco, o che ci lavora alle spalle, nell'organigramma aziendale che ci compete. Bunga a bunga lavorativi, bunga a bunga solo ricreativi. Per uso personale e per smercio clandestino. Ma in realtà, per dirla tutta, forse il bunga bunga, è semplicemente la serendipity delle sòle prese col sorriso. Come la serendipity è la cosa non cercata che ci rende felici quando la troviamo, pur non cercandola, il bunga è la fregatura che ci dà piacere anche se ce l'aspettavamo perfettamente.
Due semplici paroline, essenziali come tutte quelle di derivazione onomatopeica, la cui ripetizione è già un ritmo, e non ancora un amplesso. Primo bunga: una promessa licenziosa di tribalità contemporanea, magari anche ritrovata con indossa una cravatta, una di quelle buona, una Marinella: mai abbastanza celebrato sostituto del pene italico. Secondo bunga: la promessa è mantenuta, il contatto c'è stato e cominciano le gioie e i dolori, bipartiti con saggezza e destrezza, fra bungatore e bungato, in parti uguali ma opposte: ogni onore e gloria al primo, tutta la sapida e quasi invocata umiliazione al secondo.
D'altronde, è sempre stato così e sempre sarà. Perché le regole della contemporaneità, del mercato (e, nella fattispecie, del mercato della politica), che conoscono vincitori
e vinti esattamente come un tempo era per i cacciatori più arditi e per le femmine che solo a loro era dato di procurarsi, devono differire da quelle della tribù?
Come sempre, non c'è miglior modo di mantenere intatta una tradizione che quello di trasformarla, attualizzarla, adattarla alle proprie esigenze. E' il grande vantaggio che hanno i classici sui moderni: si possono leggere sempre, e quindi sono sempre più contemporanei dei contemporanei.
Sono giorni di forte, intenso bunga bunga. Lo si avverte in Parlamento, dove non sembra si conosca miglior modo di annunciare l'esito di una votazione, quando va al contrario di quello che si sperava. Lo si apprende negli uffici dei commercialisti, ogni volta che un modello unico viene metaforicamente consegnato nell'altrettanto unico posto in cui procurerà il maggior dolore possibile al contribuente di turno. Lo sanno perfino negli spogliatoi dei migliori campetti sportivi leccesi, dove, giusto ieri, colti certamente dall'euforia di una vittoria a calcetto, e dallo spirito del tempo, è stato possibile osservare il fior fiore di professionisti agitare pelvicamente il proprio corpo nudo e affaticato, quasi sfidandosi l'un l'altro a singolar tenzone: "Bunga Bunga", in tutti e tre i casi, era il grido comune. Dapprima è cominciato in sordina, questo rumore ora assordante, come un tam tam (certo, parente stretto del bunga bunga; ma più diretto, frontale, meno subdolo e molto meno retroattivo); ma un tam che ha avuto successo: un tam tam che ha saputo brillantemente valicare i confini del suo villaggio di origine (se non africano, almeno brianzolo), per fare il suo trionfale ingresso nell'immaginario degli scemi del villaggio globale. Che un altro fatto sia indice del successo che questa iterazione (due sole volte, la massima efficacia col minimo sforzo: parola d'ordine, ottimizzare) di suoni e di suggestioni sta avendo nel nostro paese, da quando è stato associato al personal branding involontario del nostro Presidente del Consiglio (in carica). Giusto ieri, perfino uno dei giornali attualmente meglio scritti d'Italia - la Stampa di Torino - nelle sole prime 3 pagine della sua edizione nazionale cita già in due fondamentali occasioni il bunghismo. La prima è opera del magistero umoristico di Massimo Gramellini che, con straordinaria presenza di spirito associa le esagerazioni che, anni fa, occupandosi di riportare dalla Napoli di Maradona le imprese tutt'altro che tecnicamente sportive del fuoriclasse argentino, ipotizzava che nessun altro meglio di Diego potesse impersonale l'aberrazione dei desideri, delle aspettative e dei sogno dell'italiano medio come lui. L'ammissione di essersi sbagliato è un colpo di scena giornalistico di una classe ineguagliabile.
Ma cosa è davvero il Bunga Bunga? Continuamo a chiedercelo ancora, anche adesso che abbiamo chiarito sufficientemente chi ci sia dietro l'operazione e tutti i giri di metafore e di applicazioni nella vita pratica che ne derivano. Non basta neanche Urban Dictionary, una vera e propria sorta di Accademia della Crusca per tutto ciò che sfugge ai dizionari di carta ed è colto perfettamente da quella particolare versione della "vita di strada" che è internet. Il fatto che questa fonte sia di respiro ampio e internazionale, già la dice lunga sulla straordinaria bravura che ha avuto quel grande brand manager di se stesso. Recita Urban Dictionary: "Bunga-bunga: stupro di gruppo anale e selvaggiamente brutale. Leggendaria punizione per la violazione di domicilio presso tribù africane non accreditate".
Il bunga bunga è fra noi, è ovunque. Il bunga bunga e nell'essere falso e cortese che ci dorme affianco, o che ci lavora alle spalle, nell'organigramma aziendale che ci compete. Bunga a bunga lavorativi, bunga a bunga solo ricreativi. Per uso personale e per smercio clandestino. Ma in realtà, per dirla tutta, forse il bunga bunga, è semplicemente la serendipity delle sòle prese col sorriso. Come la serendipity è la cosa non cercata che ci rende felici quando la troviamo, pur non cercandola, il bunga è la fregatura che ci dà piacere anche se ce l'aspettavamo perfettamente.
Due semplici paroline, essenziali come tutte quelle di derivazione onomatopeica, la cui ripetizione è già un ritmo, e non ancora un amplesso. Primo bunga: una promessa licenziosa di tribalità contemporanea, magari anche ritrovata con indossa una cravatta, una di quelle buona, una Marinella: mai abbastanza celebrato sostituto del pene italico. Secondo bunga: la promessa è mantenuta, il contatto c'è stato e cominciano le gioie e i dolori, bipartiti con saggezza e destrezza, fra bungatore e bungato, in parti uguali ma opposte: ogni onore e gloria al primo, tutta la sapida e quasi invocata umiliazione al secondo.
D'altronde, è sempre stato così e sempre sarà. Perché le regole della contemporaneità, del mercato (e, nella fattispecie, del mercato della politica), che conoscono vincitori
e vinti esattamente come un tempo era per i cacciatori più arditi e per le femmine che solo a loro era dato di procurarsi, devono differire da quelle della tribù?
Come sempre, non c'è miglior modo di mantenere intatta una tradizione che quello di trasformarla, attualizzarla, adattarla alle proprie esigenze. E' il grande vantaggio che hanno i classici sui moderni: si possono leggere sempre, e quindi sono sempre più contemporanei dei contemporanei.
26 ottobre 2010
Un pomeriggio in biblioteca 2.0
In edicola con 20Centesimi
Silenzio. Siamo nel cuore della Lecce che sta in silenzio, per raccontarvi - da perfetti insider - un pomeriggio come tanti, alla Biblioteca Provinciale Bernardini, località ex Convitto Palmieri. Un pomeriggio che, però, sempre come tanti altri, se non fossimo qui imboscati, fra un liceale sedicenne e un sedicente laureando in fisica, finirebbe per restare sommerso, fra i caffè di prima delle 15.30 e gli aperitivi di dopo le 20. I due momenti della giornata in cui gli abitanti di questo mondo parallelo tornano a sembianze umane e fanno girare l’economia. Sono queste le quattro ore e mezza in cui prende vita tutto un mondo per certi versi parallelo, per altri perfettamente contemporaneo; eppure comunque sospeso, come in una di quelle bellissime scene di Toy Story in cui un umano è appena uscito di casa e i giocattoli possono riprendere liberamente la loro conversazione.
Quando ci entriamo la prima volta, nella Bernardini vera e propria - non quella dei cessi marmorei da hotel 4 stelle, non quella delle macchinette automatiche col tè freddissimo a 90 centesimi, che lì sono buoni tutti a stare in silenzio, ammirati - i primi passi, come in ogni sala lettura stuccata che si rispetti, si muovono sempre con una certa circospezione. Prime edizioni alle pareti; busti in gesso di letterati morti da secoli e mai sentiti nominare; voglia di andarsene a casa o, almeno, di sporcare il meno possibile quei lucidi tavoli di legno massiccio (altro che la scrivania Galant dell’Ikea che abbiamo a casa). Paura di non essere all’altezza di tutte quelle facce pulite, così giovani eppure così impegnate nella fondamentale tesina che sembrano scrivere incessantemente, come se non ci fosse un domani, oltre l’orario di chiusura della sala. Di più: come se ci fosse un fuoco, una passione ardente fra i loro neuroni di un altro mondo, allenati da chissà quanti altri pomeriggi di riflessione e di elaborazione a produrre sui quei portatili interminabili documenti di Word, con tanto di chissà quali grafici e tabelle.
Ma è nel momento stesso in cui ci accomodiamo alla propria postazione, scortati a stretto giro da un Caronte della cultura (provinciale) che sembra non essere affatto entusiasta del documento di identità scaduto che abbiamo fornito all’atto dell’iscrizione - e cui abbiamo promesso di tornare l’indomani con una patente valida - che ci rendiamo conto che la realtà, dietro queste apparenze, è molto diversa. In verità, quello che avevamo temuto - cioè di essere scoperti con le mani sulla tastiera a scrivere questo pezzo, da secchioni violati come Diana da Atteone durante una delle sue cacce più private - è sostituito presto dalla paura di essere scoperti privi di un profilo Facebook dalla signorina rasta di fronte che, scoprendoci nell’atto di inserire una penna-modem nel nostro laptop, ci informa della possibilità di usufruire della rete lan della biblioteca, asportando l’apposito cavo dalla postazione di fianco alla nostra, attualmente disabitata. Simulare di simulare di studiare, grazie ai consigli della stessa signorina, che si chiama Laura e fa la barista acrobatica, diventa presto una seconda natura, per le nostre menti deformate dall’abitudine a scrivere di cultura a Lecce.
Con tutta la tecnologia a disposizione dei giovani e dei diversamente giovani che qui sono di casa, non c’è una sola tipologia di locale notturno con giochi a premi i cui meccanismi di gioco a premi o messaggeria da rimorchio non sia possibile riprodurre qui, fra queste stupende boiserie, restaurate dalla mano di amministratori pubblici illuminati, in grado di sopportare forti spese per il nostro arricchimento culturale; e governate da straordinari custodi, in grado di tollerare anche tre, quattro mesi di anagrafe fantasma. La classica chattata finto-clandestina fra due visitatori in realtà fidanzati da anni è solo l’inizio di una scoperta di perversioni e di aberrazioni della socialità online che questi hard disk e queste ram potrebbero raccontare per anni e anni di sbobinamento. Il massimo? Giocare ai mimi via webcam da un tavolo all’altro, rigorosamente dopo aver silenziato i microfoni.
Sui diversamente giovani, in particolare, c’è da fare un’osservazione. Qualcuno fra loro è pure belloccio, dinoccolato, un perfetto dottorando in cerca di sedute comode per battere tesi forse reali. Uno sicuro di sé. Dovreste vedere la faccia che gli fanno le liceali che cerca di approcciare non facendo finta di chiedere loro il nome, per motivi di precedenti incontri fittizi al Cagliostro, e per poi aggiungerle al volo su Facebook. “Ma da dove viene questo vecchio?” - è la condanna che digitano sulla finestra di Msn un attimo dopo avergli dato del lei.
Silenzio. Siamo nel cuore della Lecce che sta in silenzio, per raccontarvi - da perfetti insider - un pomeriggio come tanti, alla Biblioteca Provinciale Bernardini, località ex Convitto Palmieri. Un pomeriggio che, però, sempre come tanti altri, se non fossimo qui imboscati, fra un liceale sedicenne e un sedicente laureando in fisica, finirebbe per restare sommerso, fra i caffè di prima delle 15.30 e gli aperitivi di dopo le 20. I due momenti della giornata in cui gli abitanti di questo mondo parallelo tornano a sembianze umane e fanno girare l’economia. Sono queste le quattro ore e mezza in cui prende vita tutto un mondo per certi versi parallelo, per altri perfettamente contemporaneo; eppure comunque sospeso, come in una di quelle bellissime scene di Toy Story in cui un umano è appena uscito di casa e i giocattoli possono riprendere liberamente la loro conversazione.
Quando ci entriamo la prima volta, nella Bernardini vera e propria - non quella dei cessi marmorei da hotel 4 stelle, non quella delle macchinette automatiche col tè freddissimo a 90 centesimi, che lì sono buoni tutti a stare in silenzio, ammirati - i primi passi, come in ogni sala lettura stuccata che si rispetti, si muovono sempre con una certa circospezione. Prime edizioni alle pareti; busti in gesso di letterati morti da secoli e mai sentiti nominare; voglia di andarsene a casa o, almeno, di sporcare il meno possibile quei lucidi tavoli di legno massiccio (altro che la scrivania Galant dell’Ikea che abbiamo a casa). Paura di non essere all’altezza di tutte quelle facce pulite, così giovani eppure così impegnate nella fondamentale tesina che sembrano scrivere incessantemente, come se non ci fosse un domani, oltre l’orario di chiusura della sala. Di più: come se ci fosse un fuoco, una passione ardente fra i loro neuroni di un altro mondo, allenati da chissà quanti altri pomeriggi di riflessione e di elaborazione a produrre sui quei portatili interminabili documenti di Word, con tanto di chissà quali grafici e tabelle.
Ma è nel momento stesso in cui ci accomodiamo alla propria postazione, scortati a stretto giro da un Caronte della cultura (provinciale) che sembra non essere affatto entusiasta del documento di identità scaduto che abbiamo fornito all’atto dell’iscrizione - e cui abbiamo promesso di tornare l’indomani con una patente valida - che ci rendiamo conto che la realtà, dietro queste apparenze, è molto diversa. In verità, quello che avevamo temuto - cioè di essere scoperti con le mani sulla tastiera a scrivere questo pezzo, da secchioni violati come Diana da Atteone durante una delle sue cacce più private - è sostituito presto dalla paura di essere scoperti privi di un profilo Facebook dalla signorina rasta di fronte che, scoprendoci nell’atto di inserire una penna-modem nel nostro laptop, ci informa della possibilità di usufruire della rete lan della biblioteca, asportando l’apposito cavo dalla postazione di fianco alla nostra, attualmente disabitata. Simulare di simulare di studiare, grazie ai consigli della stessa signorina, che si chiama Laura e fa la barista acrobatica, diventa presto una seconda natura, per le nostre menti deformate dall’abitudine a scrivere di cultura a Lecce.
Con tutta la tecnologia a disposizione dei giovani e dei diversamente giovani che qui sono di casa, non c’è una sola tipologia di locale notturno con giochi a premi i cui meccanismi di gioco a premi o messaggeria da rimorchio non sia possibile riprodurre qui, fra queste stupende boiserie, restaurate dalla mano di amministratori pubblici illuminati, in grado di sopportare forti spese per il nostro arricchimento culturale; e governate da straordinari custodi, in grado di tollerare anche tre, quattro mesi di anagrafe fantasma. La classica chattata finto-clandestina fra due visitatori in realtà fidanzati da anni è solo l’inizio di una scoperta di perversioni e di aberrazioni della socialità online che questi hard disk e queste ram potrebbero raccontare per anni e anni di sbobinamento. Il massimo? Giocare ai mimi via webcam da un tavolo all’altro, rigorosamente dopo aver silenziato i microfoni.
Sui diversamente giovani, in particolare, c’è da fare un’osservazione. Qualcuno fra loro è pure belloccio, dinoccolato, un perfetto dottorando in cerca di sedute comode per battere tesi forse reali. Uno sicuro di sé. Dovreste vedere la faccia che gli fanno le liceali che cerca di approcciare non facendo finta di chiedere loro il nome, per motivi di precedenti incontri fittizi al Cagliostro, e per poi aggiungerle al volo su Facebook. “Ma da dove viene questo vecchio?” - è la condanna che digitano sulla finestra di Msn un attimo dopo avergli dato del lei.
22 ottobre 2010
Perché Uccio Aloisi è stato importante
In edicola con 20Centesimi
Poche figure come quella di Uccio Aloisi rendono evidente il distacco che c'è fra quello che era la musica popolare salentina prima che avesse successo (etnomusicologicamente parlando, come direbbe il ghost writer di Massimo Alfarano) e la sua fusion incessante con tutto e il contrario di tutto. Ovvero, con quello che passa per la musica popolare salentina, ora che pare abbia successo.
Parlavamo proprio ieri di profumiere, in campo sessual-sentimentale, riferendoci ad esse come alle donne più infide possibili: quelle che vivono rapporti con gli uomini in forza della loro profumazione, e mai in funzione della loro essenza. Accenni di consensualità, forme di sensualità, vedere: quanto volete. Concludere, realizzare, toccare: neanche per sogno. In un mondo in cui le donne profumiere sono al potere o stanno per prenderlo definitivamente, mentre neanche ce ne rendiamo conto, non poteva che capitarci un'estetica della musica folk in cui gli accostamenti contano più delle identità; gli arrangiamenti più dei testi (che sono praticamente sempre gli stessi, svuotati come il vaso di terriccio di una piantina dimenticata); i gruppi più dei solisti, e via discorrendo, pizzicando e tarantando.
Per carità, da sempre un grande momento di espressione nelle arti ha dovuto essere contaminato e sminuzzato (vedi il manierismo in architettura o in pittura, dopo la prima stagione del Rinascimento), per poter essere isolato e finalmente compreso, una volta, però, morto. Ma qui non stiamo parlando, con tutto il dovuto rispetto, di grande pittura ad affresco da cappella papale; bensì di bozzetti di vita quotidiana sublimati, per qualche minuto di canto, in un'oralità intima e straziante. Massimo rispetto per tutti i concertoni della Notte della Taranta presenti, passati e addivenire. Serate frutto di selezioni ardite e prestigiose, fonte di divertimenti i cui ricordi durano vite e, in qualche caso, ne producono di nuove. Resta il fatto però che fra tutti quei musici polistrumentisti di chissà dove e di chissà come, fino a qualche ora fa, solo uno non suonava che un unico strumento. Questo era Aloisi. La cosa, invece di sembrarci un limite, ci sembrava una grande occasione. Il fatto che poi quello strumento unico e irripetibile fosse la sua anima irrimediabilmente bruciata dalla fatica, e indissolubilmente unita a qualunque altro elemento con cui la volesse o dovesse accompagnarla - che fosse un tamburello del '700 prestato da un museo, ma percosso da una mano callosa e ferita; o un'intera formazione di grido come come i Buena Vista Social Club, quasi ignorati dal maestro in una indimenticabile serata - non faceva che aumentare il nostro stupore, di trovarci un simile ulivo (come giustamente lo ha definito Massimo Bray) in una selva di tanti rampicanti.
Così, è quantomeno strano che i giornali locali debbano celebrare in Uccio Aloisi il cantore del tarantismo solo perché ha effettivamente partecipato e mattato - a suo modo schivo e quasi dissacratorio - diversi concertoni melpignanesi. In realtà, non c'è niente di più meno tarantato dell'essenza di Uccio Aloisi: autore di un canto popolare talmente autobiografico che non ammette cover, e talmente universale che può essere anche solo salentino, senza alcun bisogno di contaminazioni e fusion, per essere valorizzato. Un canto che sgorga da un'esperienza di lavoro faticosa e anacronistica è fatto così: o lo fa uno del 1928 o il resto sono pizzicarelle.
L'estetica dell'Aloisi al pieno delle sue possibilità è brutale, fatta com'è di testi che prendono forma come arnesi di "fatia", che si affilano solo dove serve che taglino, senza nulla concedere alla forma, e dunque alla melodia. Un'estetica così solo un modo conosceva di essere se stessa, quando veniva accostata a "tutto il resto": andare il più possibile fuori tempo. Non a caso, il canto del cigno di questo stornellatore rude ma funzionale come un muretto a secco, eppure generoso come una fontanella di piazza - è stato quest'estate. E' stato l'aver suonato lo stesso, anche se avrebbe dovuto restare dietro le quinte, seguendo i consigli dei medici. Si è fatto issare a spalla sul palco fra gli applausi che a un certo punto sono quasi venuti meno, perché le mani di parecchie signore avevano cominciato ad essere seriamente impegnate a tergere lacrime. L'ultimo modo sostenibile di andare fuori tempo.
Aloisi condivideva la sua esperienza di vita autentica con qualunque pubblico, senza guardare in faccia neanche alle prime file di ognuna delle migliaia di serate che avrà fatto nella sua carriera non sfolgorante, ma molto luminosa.
Poche figure come quella di Uccio Aloisi rendono evidente il distacco che c'è fra quello che era la musica popolare salentina prima che avesse successo (etnomusicologicamente parlando, come direbbe il ghost writer di Massimo Alfarano) e la sua fusion incessante con tutto e il contrario di tutto. Ovvero, con quello che passa per la musica popolare salentina, ora che pare abbia successo.
Parlavamo proprio ieri di profumiere, in campo sessual-sentimentale, riferendoci ad esse come alle donne più infide possibili: quelle che vivono rapporti con gli uomini in forza della loro profumazione, e mai in funzione della loro essenza. Accenni di consensualità, forme di sensualità, vedere: quanto volete. Concludere, realizzare, toccare: neanche per sogno. In un mondo in cui le donne profumiere sono al potere o stanno per prenderlo definitivamente, mentre neanche ce ne rendiamo conto, non poteva che capitarci un'estetica della musica folk in cui gli accostamenti contano più delle identità; gli arrangiamenti più dei testi (che sono praticamente sempre gli stessi, svuotati come il vaso di terriccio di una piantina dimenticata); i gruppi più dei solisti, e via discorrendo, pizzicando e tarantando.
Per carità, da sempre un grande momento di espressione nelle arti ha dovuto essere contaminato e sminuzzato (vedi il manierismo in architettura o in pittura, dopo la prima stagione del Rinascimento), per poter essere isolato e finalmente compreso, una volta, però, morto. Ma qui non stiamo parlando, con tutto il dovuto rispetto, di grande pittura ad affresco da cappella papale; bensì di bozzetti di vita quotidiana sublimati, per qualche minuto di canto, in un'oralità intima e straziante. Massimo rispetto per tutti i concertoni della Notte della Taranta presenti, passati e addivenire. Serate frutto di selezioni ardite e prestigiose, fonte di divertimenti i cui ricordi durano vite e, in qualche caso, ne producono di nuove. Resta il fatto però che fra tutti quei musici polistrumentisti di chissà dove e di chissà come, fino a qualche ora fa, solo uno non suonava che un unico strumento. Questo era Aloisi. La cosa, invece di sembrarci un limite, ci sembrava una grande occasione. Il fatto che poi quello strumento unico e irripetibile fosse la sua anima irrimediabilmente bruciata dalla fatica, e indissolubilmente unita a qualunque altro elemento con cui la volesse o dovesse accompagnarla - che fosse un tamburello del '700 prestato da un museo, ma percosso da una mano callosa e ferita; o un'intera formazione di grido come come i Buena Vista Social Club, quasi ignorati dal maestro in una indimenticabile serata - non faceva che aumentare il nostro stupore, di trovarci un simile ulivo (come giustamente lo ha definito Massimo Bray) in una selva di tanti rampicanti.
Così, è quantomeno strano che i giornali locali debbano celebrare in Uccio Aloisi il cantore del tarantismo solo perché ha effettivamente partecipato e mattato - a suo modo schivo e quasi dissacratorio - diversi concertoni melpignanesi. In realtà, non c'è niente di più meno tarantato dell'essenza di Uccio Aloisi: autore di un canto popolare talmente autobiografico che non ammette cover, e talmente universale che può essere anche solo salentino, senza alcun bisogno di contaminazioni e fusion, per essere valorizzato. Un canto che sgorga da un'esperienza di lavoro faticosa e anacronistica è fatto così: o lo fa uno del 1928 o il resto sono pizzicarelle.
L'estetica dell'Aloisi al pieno delle sue possibilità è brutale, fatta com'è di testi che prendono forma come arnesi di "fatia", che si affilano solo dove serve che taglino, senza nulla concedere alla forma, e dunque alla melodia. Un'estetica così solo un modo conosceva di essere se stessa, quando veniva accostata a "tutto il resto": andare il più possibile fuori tempo. Non a caso, il canto del cigno di questo stornellatore rude ma funzionale come un muretto a secco, eppure generoso come una fontanella di piazza - è stato quest'estate. E' stato l'aver suonato lo stesso, anche se avrebbe dovuto restare dietro le quinte, seguendo i consigli dei medici. Si è fatto issare a spalla sul palco fra gli applausi che a un certo punto sono quasi venuti meno, perché le mani di parecchie signore avevano cominciato ad essere seriamente impegnate a tergere lacrime. L'ultimo modo sostenibile di andare fuori tempo.
Aloisi condivideva la sua esperienza di vita autentica con qualunque pubblico, senza guardare in faccia neanche alle prime file di ognuna delle migliaia di serate che avrà fatto nella sua carriera non sfolgorante, ma molto luminosa.
21 ottobre 2010
Dove si fa la spesa nobile nel Salento
In edicola con 20Centesimi
Lo speciale dedicato a Fulco Ruffo di Calabria, pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno di ieri, ci ha rivelato un nobiluomo ormai salentino d'adozione, e fortemente simpatizzante col concetto di mercatino. E' evidente in ogni singola segnalazione culinaria o balnerare, da parte di Fulco, che il settore in sé della distribuzione di massa non faccia al caso suo. Ma due interrogativi si sono posti, allora, alla cortese attenzione dei lettori più attenti del supplemento meridionalista del più importante quotidiano italiano. Il primo è tutto incentrato sul perché mai Fulco Ruffo di Calabria viva a Lecce. Il problema, come saprà benissimo il fruttivendolo andranese, patuense o gallipolino che si sia imbattutto almeno una volta nel bel principe brizzolato (e abbia anche seguito almeno l'edizione de L'Isola dei famosi cui egli partecipò) non è affatto di facile soluzione. Il secondo dubbio, sul cui scioglimento possiamo contare su basi empiriche più salde, riguarda dove faccia la spesa il resto dei nobiluomini salentini, e dove la maggior parte dei nuovi ricchi che ne scimmiottano costantemente le - supposte - abitudini. Diciamo supposte, se non altro, perché è cosa nota ormai quanto il luogo in cui Fulco preferisce fare il bagno (il porticciolo di Tricase), che un nuovo ricco potrà sempre solo intravedere attraverso una sorta di velo di Maya le abitudini dei nobili sopravvissuti alle grandi guerre e alla piccola e media impresa. Che quel velo di Maya sia intessuto in gran parte di articoli come questo del Corriere del Mezzogiorno, che si aggiunge a una lunga sfilza di rubriche di Chiarella D'Ambrogio, ben archiviata nelle nostre menti, e pubblicata nella stessa sede, ecco, questa è un'altra storia. Quello che conta qui è dove i veri nobili salentini comprano le vivande che consumano sul loro desco, e dove i neo ricchi se le fanno comprare.
E arriva la prima sorpresa. Il vero nobile salentino, soprattutto se diversamente decaduto, ma poco intenzionato a consumare merce scaduta (magari ereditata insieme ai mobili), fa la spesa al discount. Il grosso almeno, il clou degli acquisti settimanali in grado di foraggiare anche 4, 5 o 6 discendenti in odore di sempre maggiori impegni a calcetto. Le materie prime che contano: soprattutto pasta, ortaggi e verdura. Qualche numero in meno per quanto riguarda le carni rosse; qualche sospiro di sollievo davanti a carni bianche che, dopo settimane di dubbi e incertezze, finalmente sembrano fresche come si deve. E' possibile avvistarne a frotte, di questi piccoli e medi nobili, che si salutano in fila alla cassa dell'Eurospin di viale Rossini, angolo via Cicolella. Sono in fila esattamente come i nomadi di mezza età che, da prima ancora che i nobili in questione potessero anche solo pensare di mettere piede in un Eurospin, o anche solo immaginare il concetto di Eurospin, già erano l'aristocrazia dei discount e sapevano perfettamente come forare una confezione di savoiardi Dolciando & Dolciando, in modo da poterne assaggiare anzitempo il prezioso contenuto. I nobili scorgono i nomadi, si approntano al solito diniego d'elemosina, come avviene per le strade, quando poi si accorgono che la mano protesa dallo zingaro non è vuota, ma propone un euro in moneta da infilare nel nobile destriero che l'aristocratico governa, nelle fattezza di un carrello di colore blu come il suo sangue. Lo zingaro ha cambiato due da cinquanta centesimi al nobile e il nostro vecchio mondo è già un po' più nuovo.
Tutto all'opposto per il nuovo ricco. Il nuovo ricco, innanzitutto, è persuaso che sia suo preciso dovere somigliare il più possibile a uno zotico. Cosa in cui peraltro riesce benissimo. Il suo obbiettivo è essere il più rurale possibile, il che ha, per ora, avuto solo l'effetto di renderlo il meno urbano sostenibile. La sua casa deve sapere di mungitura, anche se è un attico che dà sulla villa comunale. L'importante, e pare che cerchi anche di insegnarlo ai suoi figli, che vanno tutti a cavallo e non sentono ragioni quando la biada non è quella che cercano, è che tutto sembri il più "naturale" possibile. E' per questo che i nuovi ricchi comprano chili di prodotti di agricoltura biologica a chilometro zero, che perlopiù poi abbandonano in frighi a sei ante per settimane, prima di cercare di fare restituire loro la vita da un cuoco cingalese, particolarmente in vena di sperimentazioni. Li comprano da siti web appositi, oppure dalle botteghe di via Leuca cui quei siti fanno capo, facendo un grande annusare pesche già quasi marce e scegliendole fra dieci perfette, con grande savoir faire. Fra una spesa e l'altra, mangiano solo merendine fuori pasto (comprate dagli stessi filippini) e al ristorante a cena. Anche così il nostro vecchio mondo si rinnova.
Lo speciale dedicato a Fulco Ruffo di Calabria, pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno di ieri, ci ha rivelato un nobiluomo ormai salentino d'adozione, e fortemente simpatizzante col concetto di mercatino. E' evidente in ogni singola segnalazione culinaria o balnerare, da parte di Fulco, che il settore in sé della distribuzione di massa non faccia al caso suo. Ma due interrogativi si sono posti, allora, alla cortese attenzione dei lettori più attenti del supplemento meridionalista del più importante quotidiano italiano. Il primo è tutto incentrato sul perché mai Fulco Ruffo di Calabria viva a Lecce. Il problema, come saprà benissimo il fruttivendolo andranese, patuense o gallipolino che si sia imbattutto almeno una volta nel bel principe brizzolato (e abbia anche seguito almeno l'edizione de L'Isola dei famosi cui egli partecipò) non è affatto di facile soluzione. Il secondo dubbio, sul cui scioglimento possiamo contare su basi empiriche più salde, riguarda dove faccia la spesa il resto dei nobiluomini salentini, e dove la maggior parte dei nuovi ricchi che ne scimmiottano costantemente le - supposte - abitudini. Diciamo supposte, se non altro, perché è cosa nota ormai quanto il luogo in cui Fulco preferisce fare il bagno (il porticciolo di Tricase), che un nuovo ricco potrà sempre solo intravedere attraverso una sorta di velo di Maya le abitudini dei nobili sopravvissuti alle grandi guerre e alla piccola e media impresa. Che quel velo di Maya sia intessuto in gran parte di articoli come questo del Corriere del Mezzogiorno, che si aggiunge a una lunga sfilza di rubriche di Chiarella D'Ambrogio, ben archiviata nelle nostre menti, e pubblicata nella stessa sede, ecco, questa è un'altra storia. Quello che conta qui è dove i veri nobili salentini comprano le vivande che consumano sul loro desco, e dove i neo ricchi se le fanno comprare.
E arriva la prima sorpresa. Il vero nobile salentino, soprattutto se diversamente decaduto, ma poco intenzionato a consumare merce scaduta (magari ereditata insieme ai mobili), fa la spesa al discount. Il grosso almeno, il clou degli acquisti settimanali in grado di foraggiare anche 4, 5 o 6 discendenti in odore di sempre maggiori impegni a calcetto. Le materie prime che contano: soprattutto pasta, ortaggi e verdura. Qualche numero in meno per quanto riguarda le carni rosse; qualche sospiro di sollievo davanti a carni bianche che, dopo settimane di dubbi e incertezze, finalmente sembrano fresche come si deve. E' possibile avvistarne a frotte, di questi piccoli e medi nobili, che si salutano in fila alla cassa dell'Eurospin di viale Rossini, angolo via Cicolella. Sono in fila esattamente come i nomadi di mezza età che, da prima ancora che i nobili in questione potessero anche solo pensare di mettere piede in un Eurospin, o anche solo immaginare il concetto di Eurospin, già erano l'aristocrazia dei discount e sapevano perfettamente come forare una confezione di savoiardi Dolciando & Dolciando, in modo da poterne assaggiare anzitempo il prezioso contenuto. I nobili scorgono i nomadi, si approntano al solito diniego d'elemosina, come avviene per le strade, quando poi si accorgono che la mano protesa dallo zingaro non è vuota, ma propone un euro in moneta da infilare nel nobile destriero che l'aristocratico governa, nelle fattezza di un carrello di colore blu come il suo sangue. Lo zingaro ha cambiato due da cinquanta centesimi al nobile e il nostro vecchio mondo è già un po' più nuovo.
Tutto all'opposto per il nuovo ricco. Il nuovo ricco, innanzitutto, è persuaso che sia suo preciso dovere somigliare il più possibile a uno zotico. Cosa in cui peraltro riesce benissimo. Il suo obbiettivo è essere il più rurale possibile, il che ha, per ora, avuto solo l'effetto di renderlo il meno urbano sostenibile. La sua casa deve sapere di mungitura, anche se è un attico che dà sulla villa comunale. L'importante, e pare che cerchi anche di insegnarlo ai suoi figli, che vanno tutti a cavallo e non sentono ragioni quando la biada non è quella che cercano, è che tutto sembri il più "naturale" possibile. E' per questo che i nuovi ricchi comprano chili di prodotti di agricoltura biologica a chilometro zero, che perlopiù poi abbandonano in frighi a sei ante per settimane, prima di cercare di fare restituire loro la vita da un cuoco cingalese, particolarmente in vena di sperimentazioni. Li comprano da siti web appositi, oppure dalle botteghe di via Leuca cui quei siti fanno capo, facendo un grande annusare pesche già quasi marce e scegliendole fra dieci perfette, con grande savoir faire. Fra una spesa e l'altra, mangiano solo merendine fuori pasto (comprate dagli stessi filippini) e al ristorante a cena. Anche così il nostro vecchio mondo si rinnova.
20 ottobre 2010
Sapessi com'è strano andare a un reality da Martano
In edicola con 20Centesimi
In tempi di crisi come questi, si dice anche dal barbiere che il lavoro dobbiamo inventarcelo. Magari, mentre se ne scopa il pavimento per arrotondare. Pare che lo stesso possa dirsi anche degli ammortizzatori sociali e chi avverta la responsabilità di doverci ricorrere. In sempre più casi, però, non è l'azienda per cui lavoravamo o lavoreremmo, a dover provvedere al "sostegno del reddito dei dipendenti che hanno appena perso il lavoro".
Prendiamo il caso di Francesca Giaccari, concorrente del Grande Fratello 11, l'attuale edizione del fratello maggiore di tutti i reality show (mentre pare, sempre di più, che il padre ne sia "Chi l'ha visto?"). La più "desiderata della casa", secondo un sondaggio realizzato a Galatina da sua madre, presenta alcune caratteristiche che la rendono emblematica dal punto di vista mediatico. Da una parte, non è la prima persona di bell'aspetto e di sesso femminile che deve fingersi intellettualmente e culturalmente peggiore di quanto non sia in realtà, per poter essere accettata da una community. In questo caso, non il privé del Malè, né tantomeno la relativaa pista Pachanga; bensì svariati milioni di telespettatori del prime time nazionale italiano.
Così, Francesca, probabilmente di comune accordo con un autore Endemol giovane e brillante, magari dotato di laurea in filosofia, master in Business Administration e fidanzata sudamericana, ha deciso di esordire con un "Comu sciamu?", appena entrata nella casa delle case televisive. La stessa casa che ha saputo prendere tristemente il posto di quella Vianello, da prima ancora che Raimondo avvertisse il primo segno grave, pace all'anima sua. Si rivolgeva a un gruppo di suoi coetanei, o giù di lì (in qualche caso anche un po' su, ma si sa, nessuno mente meglio sull'età di un concorrente di tv verità). Qualcuno romano, qualcuno lombardo, qualche altro di solo Dio sa dove. Non tutti hanno avuto l'onore di capire che volesse dire con quella domanda ma, appena Francesca ha cominciato a dare lezioni di pizzica, tutti hanno capito da dove venisse, autonomia linguistica più, autonomia linguistica meno. Il resto, è stato, fino ad oggi, solo un lungo, ininterrotto susseguirsi di "comparema, ce sta 'uardi, nu' suntu cazzi toi".
Così, tu, giovane donna centrosalentina, che hai fatto la valletta in una qualche vita precedente al Premio Barocco, sfoderando il migliore dei tuoi sorrisi e una perfetta dizione italiana - forgiata dopo anni ed anni di imitazione delle mamme delle tue compagne di classe altolocate - devi sbarcare il lunario. Parlando nel dialetto che hai passato una vita a giurare di non conoscere, ma che ti torna alla bocca nel momento del bisogno. Hai pure partecipato a Miss Italia (risultando Miss Eleganza Puglia 2004, sia detto con un certo moto di orgoglio). Eppure, il lavoro come attrice non protagonista accanto a Scamarcio non è venuto. Perlomeno, non ti è caduto addosso come grandine a Collemeto, come nei giorni in cui papà non si è fidato di accompagnarti in macchina al corso di portamento, a Nardò, dalla signora Raffaella che è tanto brava e poi è un amore come spiega. E' qui che interviene la televisione, o meglio lo stato, o meglio ancora un'aberrata e mostruosa figlia bastarda delle due entità.
Allora, ecco anche come le due cose si correlano. Come vanno a nozze il finto dialetto e il riciclo di capitale umano, in questa terra in cui ci stanno per togliere anche i pomodori da tirare in faccia, a dei clown che non ci fanno più ridere da un pezzo. Il Grande Fratello, come la televisione stessa, come il governo centrale che rappresenta, non sono altro che un sublime sistema di ammortizzazione sociale, rispetto a quello che sono le possibilità occupazionali che il governo stesso non riesce o non vuole darci. E' una cloaca di reflussi ormai statisticamente certi, anche provvisti di una certa rappresentativià regionale, a mo' di parlamentino delle deformità e dei vizi del nostro Belpaese.
Passiamo una vita a studiare e a coltivare i nostri talenti (Francesca è laureata in scienze politiche e canta nei locali salentini da una vita, è insomma una ragazza non priva di pregi). Non troviamo lavoro o perdiamo quello che avevamo? Non dobbiamo preoccuparci: il sistema provvederà a darci di che vivere, chiedendoci in cambio di mostrare a tutti gli altri ogni nostro difetto, incertezza o paura.
In tempi di crisi come questi, si dice anche dal barbiere che il lavoro dobbiamo inventarcelo. Magari, mentre se ne scopa il pavimento per arrotondare. Pare che lo stesso possa dirsi anche degli ammortizzatori sociali e chi avverta la responsabilità di doverci ricorrere. In sempre più casi, però, non è l'azienda per cui lavoravamo o lavoreremmo, a dover provvedere al "sostegno del reddito dei dipendenti che hanno appena perso il lavoro".
Prendiamo il caso di Francesca Giaccari, concorrente del Grande Fratello 11, l'attuale edizione del fratello maggiore di tutti i reality show (mentre pare, sempre di più, che il padre ne sia "Chi l'ha visto?"). La più "desiderata della casa", secondo un sondaggio realizzato a Galatina da sua madre, presenta alcune caratteristiche che la rendono emblematica dal punto di vista mediatico. Da una parte, non è la prima persona di bell'aspetto e di sesso femminile che deve fingersi intellettualmente e culturalmente peggiore di quanto non sia in realtà, per poter essere accettata da una community. In questo caso, non il privé del Malè, né tantomeno la relativaa pista Pachanga; bensì svariati milioni di telespettatori del prime time nazionale italiano.
Così, Francesca, probabilmente di comune accordo con un autore Endemol giovane e brillante, magari dotato di laurea in filosofia, master in Business Administration e fidanzata sudamericana, ha deciso di esordire con un "Comu sciamu?", appena entrata nella casa delle case televisive. La stessa casa che ha saputo prendere tristemente il posto di quella Vianello, da prima ancora che Raimondo avvertisse il primo segno grave, pace all'anima sua. Si rivolgeva a un gruppo di suoi coetanei, o giù di lì (in qualche caso anche un po' su, ma si sa, nessuno mente meglio sull'età di un concorrente di tv verità). Qualcuno romano, qualcuno lombardo, qualche altro di solo Dio sa dove. Non tutti hanno avuto l'onore di capire che volesse dire con quella domanda ma, appena Francesca ha cominciato a dare lezioni di pizzica, tutti hanno capito da dove venisse, autonomia linguistica più, autonomia linguistica meno. Il resto, è stato, fino ad oggi, solo un lungo, ininterrotto susseguirsi di "comparema, ce sta 'uardi, nu' suntu cazzi toi".
Così, tu, giovane donna centrosalentina, che hai fatto la valletta in una qualche vita precedente al Premio Barocco, sfoderando il migliore dei tuoi sorrisi e una perfetta dizione italiana - forgiata dopo anni ed anni di imitazione delle mamme delle tue compagne di classe altolocate - devi sbarcare il lunario. Parlando nel dialetto che hai passato una vita a giurare di non conoscere, ma che ti torna alla bocca nel momento del bisogno. Hai pure partecipato a Miss Italia (risultando Miss Eleganza Puglia 2004, sia detto con un certo moto di orgoglio). Eppure, il lavoro come attrice non protagonista accanto a Scamarcio non è venuto. Perlomeno, non ti è caduto addosso come grandine a Collemeto, come nei giorni in cui papà non si è fidato di accompagnarti in macchina al corso di portamento, a Nardò, dalla signora Raffaella che è tanto brava e poi è un amore come spiega. E' qui che interviene la televisione, o meglio lo stato, o meglio ancora un'aberrata e mostruosa figlia bastarda delle due entità.
Allora, ecco anche come le due cose si correlano. Come vanno a nozze il finto dialetto e il riciclo di capitale umano, in questa terra in cui ci stanno per togliere anche i pomodori da tirare in faccia, a dei clown che non ci fanno più ridere da un pezzo. Il Grande Fratello, come la televisione stessa, come il governo centrale che rappresenta, non sono altro che un sublime sistema di ammortizzazione sociale, rispetto a quello che sono le possibilità occupazionali che il governo stesso non riesce o non vuole darci. E' una cloaca di reflussi ormai statisticamente certi, anche provvisti di una certa rappresentativià regionale, a mo' di parlamentino delle deformità e dei vizi del nostro Belpaese.
Passiamo una vita a studiare e a coltivare i nostri talenti (Francesca è laureata in scienze politiche e canta nei locali salentini da una vita, è insomma una ragazza non priva di pregi). Non troviamo lavoro o perdiamo quello che avevamo? Non dobbiamo preoccuparci: il sistema provvederà a darci di che vivere, chiedendoci in cambio di mostrare a tutti gli altri ogni nostro difetto, incertezza o paura.
16 ottobre 2010
Magdi Allam, lo stranissimo Cristiano
In edicola con 20Centesimi
L'opera più autobiografica del diversamente copto Magdi Cristiano Allam non poteva che essere presentata a Lecce col massimo entusiasmo da parte di Alfredo Mantovano e dei suoi grandi elettori. Il foyer del Teatro Politeama Greco, ieri sera alle 18, era stracolmo del centinaio di poltroncine rosse che, di norma, sono il solo arredamento dei suoi palchi (siamo nell'epoca dei reality, non dimentichiamolo). Una decisone lungi da ogni passibilità di vanagloria da parte di Alessandra Pizzi. La mente e le mèches dietro questo importante evento, infatti, hanno preferito non concedere nulla al rischio di alopecie di posti vuoti nella platea del teatro. La cosa si è rivelata saggia, perché la presenza di una tale personalità - per giunta, a Lecce per la prima volta, dopo un fugace passaggio novolese qualche mese fa - meritava qualcosa di più delle sole due o tre file di carabinieri in piedi, dietro il centinaio di fedelissimi (di Mantovano, di Gesù, o di entrambi).
L'evento era presentato da Gianni Donno (già consulente della Commissione Mitrokhin, oltre che stimato Professore Ordinario di Storia contemporanea presso l'Università del Salento e autore di numerose pubblicazioni e articoli, fra cui "L'ultima speranza per il Sud si chiama Lega"). Dopo i saluti di rito da parte di Simona Manca, Assessore alla Cultura della Provincia di Lecce e padrona di casa, Donno ha rubato solo qualche minuto del tempo riservato a Magdi e a Cristiano per fare presente all'uditorio il suo concetto di "islamicamente corretto" e quanto esso sia superato e improprio. Qualche istante dell'introduzione è stato dedicato anche a qualche difficoltà nel distinguere fra l'apparato musivo della Cattedrale di Otranto come esempio da manuale di incontro iconologico fra cultura orientale e occidentale, e lo stesso come incontro fra Cristianità e Islam (cosa che farebbe rivoltare don Grazio Gianfreda nella tomba).
Il libro di Allam, "Europa Cristiana libera", racconta gli anni più culturalmente e spiritualmente sofferti della sua vita: al centro di tutto, il passaggio da una lunga carriera nel giornalismo professionale, culminata con la vice-direzione del Corriere della Sera, alla decisione di fondare un nuovo partito, “Protagonisti Per l’Europa Cristiana”. Il volume, edito da Mondadori (18 euro) contiene dei passi toccanti e vibranti, non c'è che dire. Anche le sue parole di ieri lo sono, eccome.
Solo, le cose più belle che dice questo stranissimo cristiano (se al livello di "solo" strano restava saldamente fermo il giornalista televisivo Antonio Socci, che qualcuno ricorderà), sono anche le più laiche che pronuncia. E' un bel sottoinsieme, in cui vorremmo tanto che la parte principale della discussione restasse. Come se non ci fosse bisogno di troppa religiosità per dire delle verità civili e soprattutto umane che sono alla base del nostro esistere. Utopia? Resta il fatto che quando Magdi afferma: "I dialoghi devono essere prima fra persone, che fra religiosi", sento troppo più entusiasmo da parte dei pochi atei presenti in sala, che dai numerari dell'Opus Dei al loro fianco.
Il fatto è che troppe volte, ascoltando le parole di Cristiano, ci viene alla mente l'attributo "liturgico" (se non "pretesco"). Cito: "Il 22 marzo 2008, durante la Veglia pasquale, ho ricevuto il Battesimo, la Cresima e l’Eucaristia in San Pietro da papa Benedetto XVI". Per dirlo con parole che sono una mia libera interpretazione del pensiero di Allam stesso, davanti a tanto apparato cristiano-retorico, in cuor mio, non vorrei altro che "Europa Cristiana libera" fosse il libro speciale che, di fatto, è, non perché scritto da un giornalista e poi politico egiziano naturalizzato italiano (cresciuto da musulmano, ma educato in scuole cattoliche da sempre), ma perché scritto da un uomo speciale.
Facendo dunque un bilancio senza troppi peli sulla lingua, a parte un Magdi libero pensatore e grandissimo oratore, ma un po' prigioniero di Cristiano (o, comunque, più prigioniero di Cristiano che della sua ingente scorta, con cui sembra vivere un impressionante rapporto di simbiosi), la "sfida" di ieri sera è stata ampiamente vinta da Simona Manca. Non è la prima volta che questo accade. E' un copione ormai già scritto ogni volta che, negli ultimi mesi, a Lecce si invita qualcuno a dire qualcosa di culturalmente rilevante e questi non è Francesco Guccini, o comunque un musicista in odore di taranta. Resta da vedere se la cosa avvenga così puntualmente più per merito di Simona o per demerito dei suoi colleghi amministratori.
L'opera più autobiografica del diversamente copto Magdi Cristiano Allam non poteva che essere presentata a Lecce col massimo entusiasmo da parte di Alfredo Mantovano e dei suoi grandi elettori. Il foyer del Teatro Politeama Greco, ieri sera alle 18, era stracolmo del centinaio di poltroncine rosse che, di norma, sono il solo arredamento dei suoi palchi (siamo nell'epoca dei reality, non dimentichiamolo). Una decisone lungi da ogni passibilità di vanagloria da parte di Alessandra Pizzi. La mente e le mèches dietro questo importante evento, infatti, hanno preferito non concedere nulla al rischio di alopecie di posti vuoti nella platea del teatro. La cosa si è rivelata saggia, perché la presenza di una tale personalità - per giunta, a Lecce per la prima volta, dopo un fugace passaggio novolese qualche mese fa - meritava qualcosa di più delle sole due o tre file di carabinieri in piedi, dietro il centinaio di fedelissimi (di Mantovano, di Gesù, o di entrambi).
L'evento era presentato da Gianni Donno (già consulente della Commissione Mitrokhin, oltre che stimato Professore Ordinario di Storia contemporanea presso l'Università del Salento e autore di numerose pubblicazioni e articoli, fra cui "L'ultima speranza per il Sud si chiama Lega"). Dopo i saluti di rito da parte di Simona Manca, Assessore alla Cultura della Provincia di Lecce e padrona di casa, Donno ha rubato solo qualche minuto del tempo riservato a Magdi e a Cristiano per fare presente all'uditorio il suo concetto di "islamicamente corretto" e quanto esso sia superato e improprio. Qualche istante dell'introduzione è stato dedicato anche a qualche difficoltà nel distinguere fra l'apparato musivo della Cattedrale di Otranto come esempio da manuale di incontro iconologico fra cultura orientale e occidentale, e lo stesso come incontro fra Cristianità e Islam (cosa che farebbe rivoltare don Grazio Gianfreda nella tomba).
Il libro di Allam, "Europa Cristiana libera", racconta gli anni più culturalmente e spiritualmente sofferti della sua vita: al centro di tutto, il passaggio da una lunga carriera nel giornalismo professionale, culminata con la vice-direzione del Corriere della Sera, alla decisione di fondare un nuovo partito, “Protagonisti Per l’Europa Cristiana”. Il volume, edito da Mondadori (18 euro) contiene dei passi toccanti e vibranti, non c'è che dire. Anche le sue parole di ieri lo sono, eccome.
Solo, le cose più belle che dice questo stranissimo cristiano (se al livello di "solo" strano restava saldamente fermo il giornalista televisivo Antonio Socci, che qualcuno ricorderà), sono anche le più laiche che pronuncia. E' un bel sottoinsieme, in cui vorremmo tanto che la parte principale della discussione restasse. Come se non ci fosse bisogno di troppa religiosità per dire delle verità civili e soprattutto umane che sono alla base del nostro esistere. Utopia? Resta il fatto che quando Magdi afferma: "I dialoghi devono essere prima fra persone, che fra religiosi", sento troppo più entusiasmo da parte dei pochi atei presenti in sala, che dai numerari dell'Opus Dei al loro fianco.
Il fatto è che troppe volte, ascoltando le parole di Cristiano, ci viene alla mente l'attributo "liturgico" (se non "pretesco"). Cito: "Il 22 marzo 2008, durante la Veglia pasquale, ho ricevuto il Battesimo, la Cresima e l’Eucaristia in San Pietro da papa Benedetto XVI". Per dirlo con parole che sono una mia libera interpretazione del pensiero di Allam stesso, davanti a tanto apparato cristiano-retorico, in cuor mio, non vorrei altro che "Europa Cristiana libera" fosse il libro speciale che, di fatto, è, non perché scritto da un giornalista e poi politico egiziano naturalizzato italiano (cresciuto da musulmano, ma educato in scuole cattoliche da sempre), ma perché scritto da un uomo speciale.
Facendo dunque un bilancio senza troppi peli sulla lingua, a parte un Magdi libero pensatore e grandissimo oratore, ma un po' prigioniero di Cristiano (o, comunque, più prigioniero di Cristiano che della sua ingente scorta, con cui sembra vivere un impressionante rapporto di simbiosi), la "sfida" di ieri sera è stata ampiamente vinta da Simona Manca. Non è la prima volta che questo accade. E' un copione ormai già scritto ogni volta che, negli ultimi mesi, a Lecce si invita qualcuno a dire qualcosa di culturalmente rilevante e questi non è Francesco Guccini, o comunque un musicista in odore di taranta. Resta da vedere se la cosa avvenga così puntualmente più per merito di Simona o per demerito dei suoi colleghi amministratori.
15 ottobre 2010
AbcDonna: il femminile alla salentina
In edicola con 20Centesimi
Ad ABCDonna, il mensile diretto dalla brillante Ilaria Lia, non manca davvero
niente per essere, da una parte, un piccolo caso editoriale di rivista al femminile che piace davvero anche alle donne informate, e non solo agli uomini "rattusi". Dall'altra, un prodotto del giornalismo salentino di settore che sa farsi apprezzare dal pubblico e dai pubblicitari.
Le sue pagine diversamente patinate, infatti, si ispirano solo con una certa licenza poetica alla stampa nazionale del settore, ma con un bel tocco di concretezza in più. Ai loro consigli di ricette dietetiche, ad esempio, si affiancano sempre solide inserzioni pubblicitarie con bruschette giganti in primo piano. Spostandoci dal culinario allo psicologico, agli eterei consigli sentimentali alla Mina su Vanity Fair - grazie ai quali non ci risulta ancora si sia risolto alcun rapporto, a distanza o di corna che fosse - Ilaria e la sua squadra sostituiscono, con entusiasmo e voglia di fare, risposte estremamente più pragmatiche di quelle della ghost writer saccentella di una cantante leggendaria, ma attualmente non in grado di passare attraverso numerosi tipi di infisso, e figuriamoci attraverso il vaglio dell'autocritica. Che poi le dette risposte, soprattutto le più pratiche, possano corrispondere, nel 90% dei casi, a un "negati pure al telefono finché non ce l'hai all'amo, e poi tira, tira, tira, tanto non si spezza", non è per via di una limitazione delle nostre pregevoli giornaliste, bensì a causa delle mancanze strutturali del genere maschile italiano contemporaneo.
In verità, dovrebbe essere cosa nota che, nei femminili nazionali egemoni, da Io Donna e gli altri inserti settimanali dei maggiori quotidiani, fino ai mensili belli e impossibili come Amica e compagnia bella, si valica facilmente una certa misura, oltre la quale i suddetti periodici non vengono comprati più per una reale esigenza di informazione. Oltre una certa patinatura, oltre un certo numero di pubblicità di lingerie, oltre una precisa quantità di stronzate, quelle riviste vengono comprate o da donne che non potranno mai permettersi quei vestiti o quelle creme, o da uomini che non potranno mai permettersi le donne che le portano.
E' un po' come quando, in agosto, tradite il vostro barbiere di città con quello del mare (ci sono amori estivi anche in settori come il taglio dei capelli), e vi rendete conto di come la sua bottega sia tempestata di numeri di "Yacht and Sailing", e via dicendo. No, quelle barche non tutti i barbieri possono permettersele: ma sfogliando quelle pagine, ogni volta, è un po' come se tutto fosse possibile.
Ecco, è questo che ci piace particolarmente di ABCDonna: si può essere estremamente femminili senza ammorbare discettando solo di boutique; o dichiarando immancabilmente di non mangiare altro che sushi, salvo poi essere scoperte sotto i riflettori esterni di Pizzicotto con mezza taglia di tartufo e patate. Per inverso, non è detto che per essere accettate come pari - eppure sempre ineffabilmente, inevitabilmente differenti - le nostre amate donne debbano per forza di cose mostrare i loro difetti o le loro esagerazioni. Le riviste al femminile sono lette (e scritte) anche dai noi maschi? Soprattutto, sono sfruttate soprattutto dai maschi? ABCdonna sceglie molto meglio il suo target: donne che vogliono seriamente essere informate su quello che di meglio c'è in giro per loro (e al miglior prezzo), con uno sguardo deciso sul locale; e uomini che vogliono lo stesso meglio per le loro compagne, a loro insaputa, o con un pizzico di complicità in più.
Con salentine così, diventa inutile fingere di saper stare al gioco dello shopping, anche duranti i primi giorni di corteggiamento. E' un'emozione scoprire che valori e stili come questi possano essere condensati in 70 pagine di ottima carta.
Tutto bello e tutto interessante, dunque. Fino a che non arriva la mazzata, dobbiamo dirlo, che prende la forma dei due cognomi di Guglielmo Forges Davanzati. "Ah" - uno dice a se stesso - "finalmente leggo qualcosa di semplice di Forges Davanzati". Sul Quotidiano è più forte di noi: si comincia, e si finisce prima della metà della prima colonna. Fra l'impaginazione fashion e la bella foto della direttrice, uno si aspetta il miracolo. E invece no.
Per il resto, brava, bravissima Ilaria Lia. In un'epoca di sperimentazioni e trasgressioni come questa, continua a mostrarci quanto siamo vicini e quanto siamo lontani.
Ad ABCDonna, il mensile diretto dalla brillante Ilaria Lia, non manca davvero
niente per essere, da una parte, un piccolo caso editoriale di rivista al femminile che piace davvero anche alle donne informate, e non solo agli uomini "rattusi". Dall'altra, un prodotto del giornalismo salentino di settore che sa farsi apprezzare dal pubblico e dai pubblicitari.
Le sue pagine diversamente patinate, infatti, si ispirano solo con una certa licenza poetica alla stampa nazionale del settore, ma con un bel tocco di concretezza in più. Ai loro consigli di ricette dietetiche, ad esempio, si affiancano sempre solide inserzioni pubblicitarie con bruschette giganti in primo piano. Spostandoci dal culinario allo psicologico, agli eterei consigli sentimentali alla Mina su Vanity Fair - grazie ai quali non ci risulta ancora si sia risolto alcun rapporto, a distanza o di corna che fosse - Ilaria e la sua squadra sostituiscono, con entusiasmo e voglia di fare, risposte estremamente più pragmatiche di quelle della ghost writer saccentella di una cantante leggendaria, ma attualmente non in grado di passare attraverso numerosi tipi di infisso, e figuriamoci attraverso il vaglio dell'autocritica. Che poi le dette risposte, soprattutto le più pratiche, possano corrispondere, nel 90% dei casi, a un "negati pure al telefono finché non ce l'hai all'amo, e poi tira, tira, tira, tanto non si spezza", non è per via di una limitazione delle nostre pregevoli giornaliste, bensì a causa delle mancanze strutturali del genere maschile italiano contemporaneo.
In verità, dovrebbe essere cosa nota che, nei femminili nazionali egemoni, da Io Donna e gli altri inserti settimanali dei maggiori quotidiani, fino ai mensili belli e impossibili come Amica e compagnia bella, si valica facilmente una certa misura, oltre la quale i suddetti periodici non vengono comprati più per una reale esigenza di informazione. Oltre una certa patinatura, oltre un certo numero di pubblicità di lingerie, oltre una precisa quantità di stronzate, quelle riviste vengono comprate o da donne che non potranno mai permettersi quei vestiti o quelle creme, o da uomini che non potranno mai permettersi le donne che le portano.
E' un po' come quando, in agosto, tradite il vostro barbiere di città con quello del mare (ci sono amori estivi anche in settori come il taglio dei capelli), e vi rendete conto di come la sua bottega sia tempestata di numeri di "Yacht and Sailing", e via dicendo. No, quelle barche non tutti i barbieri possono permettersele: ma sfogliando quelle pagine, ogni volta, è un po' come se tutto fosse possibile.
Ecco, è questo che ci piace particolarmente di ABCDonna: si può essere estremamente femminili senza ammorbare discettando solo di boutique; o dichiarando immancabilmente di non mangiare altro che sushi, salvo poi essere scoperte sotto i riflettori esterni di Pizzicotto con mezza taglia di tartufo e patate. Per inverso, non è detto che per essere accettate come pari - eppure sempre ineffabilmente, inevitabilmente differenti - le nostre amate donne debbano per forza di cose mostrare i loro difetti o le loro esagerazioni. Le riviste al femminile sono lette (e scritte) anche dai noi maschi? Soprattutto, sono sfruttate soprattutto dai maschi? ABCdonna sceglie molto meglio il suo target: donne che vogliono seriamente essere informate su quello che di meglio c'è in giro per loro (e al miglior prezzo), con uno sguardo deciso sul locale; e uomini che vogliono lo stesso meglio per le loro compagne, a loro insaputa, o con un pizzico di complicità in più.
Con salentine così, diventa inutile fingere di saper stare al gioco dello shopping, anche duranti i primi giorni di corteggiamento. E' un'emozione scoprire che valori e stili come questi possano essere condensati in 70 pagine di ottima carta.
Tutto bello e tutto interessante, dunque. Fino a che non arriva la mazzata, dobbiamo dirlo, che prende la forma dei due cognomi di Guglielmo Forges Davanzati. "Ah" - uno dice a se stesso - "finalmente leggo qualcosa di semplice di Forges Davanzati". Sul Quotidiano è più forte di noi: si comincia, e si finisce prima della metà della prima colonna. Fra l'impaginazione fashion e la bella foto della direttrice, uno si aspetta il miracolo. E invece no.
Per il resto, brava, bravissima Ilaria Lia. In un'epoca di sperimentazioni e trasgressioni come questa, continua a mostrarci quanto siamo vicini e quanto siamo lontani.
Paolo Perrone all'Accademia Chigiana
In edicola con 20Centesimi
Un gentilissimo invito della Confcommercio di Siena è stato inoltrato al Comune di Lecce, e colto al volo da Paolo Perrone. Insieme a rappresentanze delle città di Siena stessa e di Venezia, Lecce è sollecitata a partecipare a un dibattito sul turismo nelle città d'arte. Per la precisione, il tema è come il connubio fra turismo e città d'arte dovrebbe essere gestito, "per garantire, da un lato, gli aspetti più strettamente economici, dall'altro il mantenimento e la fruibilità di monumenti, palazzi, chiese e altri elementi del patrimonio delle città". "Alla faccia del bicarbonato di sodio", direbbe, a questo punto, un amministratore locale con una discreta cultura cinematografica e anche solo una leggera infarinatura di senso del realismo. Una tematica difficilissima - che rasenta a tratti la vera e propria patata bollente - da affrontare su un terreno ancora più irto di pericoli, per il nostro buon Perrone (unico rappresentante del Comune di Lecce presente nell'occasione): la prestigiosissima, parrucconissima Accademia Chigiana di Musica. Una location che, probabilmente, metterebbe soggezione anche al più poetico e immaginifico dei governatori regionali italiani; figuriamoci a un Dottore Commercialista di livello comunale, per quanto ex-bocconiano (o, anzi, proprio perché bocconiano).
Fatto sta che, complice la moderazione del critico d'arte, esteta e alsaziano Philippe Daverio, anche Perrone oggi prenderà parte a una discussione che coinvolgerà i suoi colleghi amministratori Carla Rey (assessore al "Commercio, alla Qualità Urbana e alla Tutela del Consumatore" del Comune di Venezia) e Maurizio Cenni, sindaco di Siena. Corredano il tutto le presenze, più o meno minacciose, di esponenti del gotha della cultura toscana e, dulcis in fundo (inteso anche come "fondi" economici), Paolo Corchia di Federalberghi, il presidente del Gruppo Monte dei Paschi di Siena Giuseppe Mussari (venerato in loco come un re taumaturgo) e il non meno sacrale ed esigente - anche in fatto di umiliazioni fantozziane al suo cospetto - Gabriello Mancini, presidente della Fondazione Monte dei Paschi. Quando l'antica "Sala della Musica" si aprirà sui relatori, ecco, diversi sindaci di municipi candidabili al ruolo di "città d'arte" saranno contenti di essere stati scartati a priori dalla terna.
Il fatto è che il sindaco Cenni avrà principalmente il compito di fare gli onori di casa. Tutti gli oneri graviteranno su Perrone e Rey. La quale, sfoderando tutta la sua parlantina meritocratica, da profondo nord-est; nonché il fatto di aver aperto più e più musei del suo territorio (fra cui: Accademia, Ca’ Rezzonico, Museo Storico Navale, Museo Diocesano, Fondazione Cini) e, da non dimenticare, non avendo mai nominato Massimo Alfarano Assessore alla Cultura del suo Comune di appartenenza, avrà probabilmente un canale di accesso priviegiato all'attenzione dell'uditorio.
Insomma, le circostanze, probabilmente, vorranno qualche proposta organizzativa in più, da parte di Perrone, rispetto al solito vivacchiare di rendita e lasciar fare all'Azienda di Promozione Turistica. Qui, sia detto per inciso, in un pezzo in cui vogliamo più divertirvi che annoiarvi, è in gioco la sostenibilità stessa di un turismo di massa prossimo venturo nella nostra città di riferimento (chè, per ora, non ne abbiamo altre). Un turismo che non va certo organizzato col preservativo, non sia mai ci prendiamo qualche malattia; ma non può nemmeno essere lasciato alla mercè dei tour operator oligopolisti dei nostri meravigliosi cortili e facciate. Quando ce ne saranno, ovviamente, di tour operator davvero interessati al nostro sfruttamento e alla nostra lenta, ma inarrestabile, corruzione architettonica e sociale.
Ora, però, lasciateci il tempo e lo spazio di un'invocazione alla entità - neopagana o paleocristiana che sia - che protegge gli amministratori comunali dalla Cultura (Dio scampi sempre loro da ogni forma di accumulo o di ritenzione del sapere), non ci resta che credere fermamente nella possibilità che vengano scattate e pubblicate quante più foto possibile, di questo incontro fra Perrone e i parrucconi senesi. Speriamo solo che non porti sfiga l'atto stesso di aver rivolto la presente invocazione. Per quanto riguarda il sindaco stesso, si sa, non credendo nell'esistenza di 20Centesimi, sarebbe molto dura trattenerlo dal pubblicare le foto, con un articolo uscito in una sede come questa.
Un gentilissimo invito della Confcommercio di Siena è stato inoltrato al Comune di Lecce, e colto al volo da Paolo Perrone. Insieme a rappresentanze delle città di Siena stessa e di Venezia, Lecce è sollecitata a partecipare a un dibattito sul turismo nelle città d'arte. Per la precisione, il tema è come il connubio fra turismo e città d'arte dovrebbe essere gestito, "per garantire, da un lato, gli aspetti più strettamente economici, dall'altro il mantenimento e la fruibilità di monumenti, palazzi, chiese e altri elementi del patrimonio delle città". "Alla faccia del bicarbonato di sodio", direbbe, a questo punto, un amministratore locale con una discreta cultura cinematografica e anche solo una leggera infarinatura di senso del realismo. Una tematica difficilissima - che rasenta a tratti la vera e propria patata bollente - da affrontare su un terreno ancora più irto di pericoli, per il nostro buon Perrone (unico rappresentante del Comune di Lecce presente nell'occasione): la prestigiosissima, parrucconissima Accademia Chigiana di Musica. Una location che, probabilmente, metterebbe soggezione anche al più poetico e immaginifico dei governatori regionali italiani; figuriamoci a un Dottore Commercialista di livello comunale, per quanto ex-bocconiano (o, anzi, proprio perché bocconiano).
Fatto sta che, complice la moderazione del critico d'arte, esteta e alsaziano Philippe Daverio, anche Perrone oggi prenderà parte a una discussione che coinvolgerà i suoi colleghi amministratori Carla Rey (assessore al "Commercio, alla Qualità Urbana e alla Tutela del Consumatore" del Comune di Venezia) e Maurizio Cenni, sindaco di Siena. Corredano il tutto le presenze, più o meno minacciose, di esponenti del gotha della cultura toscana e, dulcis in fundo (inteso anche come "fondi" economici), Paolo Corchia di Federalberghi, il presidente del Gruppo Monte dei Paschi di Siena Giuseppe Mussari (venerato in loco come un re taumaturgo) e il non meno sacrale ed esigente - anche in fatto di umiliazioni fantozziane al suo cospetto - Gabriello Mancini, presidente della Fondazione Monte dei Paschi. Quando l'antica "Sala della Musica" si aprirà sui relatori, ecco, diversi sindaci di municipi candidabili al ruolo di "città d'arte" saranno contenti di essere stati scartati a priori dalla terna.
Il fatto è che il sindaco Cenni avrà principalmente il compito di fare gli onori di casa. Tutti gli oneri graviteranno su Perrone e Rey. La quale, sfoderando tutta la sua parlantina meritocratica, da profondo nord-est; nonché il fatto di aver aperto più e più musei del suo territorio (fra cui: Accademia, Ca’ Rezzonico, Museo Storico Navale, Museo Diocesano, Fondazione Cini) e, da non dimenticare, non avendo mai nominato Massimo Alfarano Assessore alla Cultura del suo Comune di appartenenza, avrà probabilmente un canale di accesso priviegiato all'attenzione dell'uditorio.
Insomma, le circostanze, probabilmente, vorranno qualche proposta organizzativa in più, da parte di Perrone, rispetto al solito vivacchiare di rendita e lasciar fare all'Azienda di Promozione Turistica. Qui, sia detto per inciso, in un pezzo in cui vogliamo più divertirvi che annoiarvi, è in gioco la sostenibilità stessa di un turismo di massa prossimo venturo nella nostra città di riferimento (chè, per ora, non ne abbiamo altre). Un turismo che non va certo organizzato col preservativo, non sia mai ci prendiamo qualche malattia; ma non può nemmeno essere lasciato alla mercè dei tour operator oligopolisti dei nostri meravigliosi cortili e facciate. Quando ce ne saranno, ovviamente, di tour operator davvero interessati al nostro sfruttamento e alla nostra lenta, ma inarrestabile, corruzione architettonica e sociale.
Ora, però, lasciateci il tempo e lo spazio di un'invocazione alla entità - neopagana o paleocristiana che sia - che protegge gli amministratori comunali dalla Cultura (Dio scampi sempre loro da ogni forma di accumulo o di ritenzione del sapere), non ci resta che credere fermamente nella possibilità che vengano scattate e pubblicate quante più foto possibile, di questo incontro fra Perrone e i parrucconi senesi. Speriamo solo che non porti sfiga l'atto stesso di aver rivolto la presente invocazione. Per quanto riguarda il sindaco stesso, si sa, non credendo nell'esistenza di 20Centesimi, sarebbe molto dura trattenerlo dal pubblicare le foto, con un articolo uscito in una sede come questa.
5 ottobre 2010
Come recensire il romanzo giallo di Oronzo Limone
In edicola con 20 Centesimi
Siamo da sempre avidi fruitori tanto di cronaca nera quanto di spy stories. Per noi, le rapine della banda della Toyota Aygo, fra San Cesario e Leverano e le avventure intramonasteriali di Adso da Melk, se proprio non sono una cosa sola, ecco, capita che occupino momenti relativamente contigui di una giornata di intensa lettura.
Dunque, per forza di cose, quando abbiamo avuto notizia dell'uscita de "Il segreto della miniatura", non abbiamo preso fra le mani il romanzo di Oronzo "Renzo" Limone, uscito per i tipi di Manni Editori (183 pp., 16 euro), scevri da qualunque forma di pregiudizio. Non lo avremmo fatto comunque se Renzo fosse stato semplicemente un accademico di alto rango, prima di diventare orditore di fiction dal fascino misterioso; e non lo abbiamo fatto - a maggior ragione - dal momento che lo stesso Renzo è stato un rettore "politico" dal potere formidabile, per molti eccessivo, su un grande Ateneo del Sud Italia: quello salentino. Che un anno fa Limone sia stato rinviato a giudizio per abuso d'ufficio e falso in atto pubblico, è una questione ancora altra, sulla quale non vogliamo farvi soffermare più del dovuto. Saremo dunque peggiori della "Gazzetta del Mezzogiorno" - che, invece, è riuscita a recensire lo stesso libro senza fare il minimo riferimento ai trascorsi giudiziari del suo Magnifico autore - esclusivamente nella fase di questa premessa: confessiamo di avere avuto dei pregiudizi di natura morale e di averli abbattuti.
"Il segreto della miniatura" non è solo un buon libro giallo firmato da un ex potente, col contorno dei soliti sospetti di averlo commissionato a un ghost writer sensibilissimo (perlomeno nel prenderci in giro fino al punto da disseminare certe ingenuità assolute nei dialoghi: "Scooby avrà la sua cuccia a casa mia"). C'è di più: la verità è basta leggerne qualche pagina perché ci si renda conto che sono alte, altissime le probabilità che sia un buon libro giallo realmente scritto da un ex potente, magari con qualche senso di colpa e un bel po' di Letteratura medievale alle spalle. Fra l'altro, nessun ghost writer riesce ad essere pagato per libri di meno di 600 pagine. Siamo insomma davvero davanti a una sorta di codicillo Da Vinci de' noantri, ma con meno voglia di fare "botteghino" e tanti meno anacronismi madornali.
Infatti, se mai questo volumetto agile ma, densissimo di avvenimenti, di cambi di location e superbe descrizioni (le famose "descrizioni" che i giovani lettori aborrono, contro i ben più attesi "dialoghi", qui oggetto di un tentativo di rivalutazione senza precedenti, da parte di uno scrittore ) dovesse passare alla storia della letteratura, sarebbe per il modo in cui l'autore si palesa nel suo personaggio, rigorosamente voce narrante.
Rispetto a Dan Brown, Renzo "Lemon" ha un grande punto di forza: non vuole assolutamente destare a tutti i costi l'attenzione del suo lettore, magari con una bella farcitura citazioni e riferimenti culturali scelti a tavolino fra i più "cliccabili" (la solita triade Vaticano, Massoneria, Occultismi vari). Tutt'altro: vuole davvero interessarlo. Lemon, come un vero professore privo di manie di protagonismo da PowerPoint, nel suo romanzo mette in gioco pochi ma buoni elementi e, per quanto possano essere effettivamente importanti le coordinate storico-culturali in cui li fissa, l'impressione di chi legge è perennemente che contino di più i collegamenti fra gli elementi a disposizione che gli elementi stessi, o i preti che si indignano.
Per questo, come dicevamo, quello che rende ancora più speciale questo libro, all'interno del suo particolarissimo genere (che corrisponde, all'ingrosso, ai libri scritti da ex potentati, con forte sospetto di avere un ghost writer, che poi si rivela essere l'ex potentati stessi), sono le sue descrizioni di ambiente. Come siano ancora più dialogiche dei dialoghi presenti: sempre psicologicamente carichissime, sempre le parti di un capitolo a fare la differenza. Le migliori, quelle degli atteggiamenti e delle fisime del bibliofilo colto nel suo sancta santorum: la sala lettura.
Il definitiva, la cosa che ci stupisce di più leggendo "Il segreto della miniatura" "tutto d'un fiato", non è tanto che Renzo Limone avrebbe potuto fare il ghost writer di un altro potente, e vivere felice così, rivoluzionando dall'interno un genere letterario saturo e decadente, come è quello del tentato best-seller italiano sulla falsariga dell'ultimo autore di strasuccesso anglofono (e ce n'è per ogni sottogenere, dagli epigoni lucani della J.K. Rowling di Harry Potter, fino ai wannabe Gianrico Carofiglio di Mondragone, considerando, oltre al "passato", anche Bari una "terra straniera").
Quello che ci fa tremare le mani, nel momento stesso in cui chiudiamo il semplice ma costoso paperback prodotto dai Manni, è che quello che veramente ucciderà questa prima edizione, dal punto di vista delle prospettive di vendita su suolo nazionale, non è certo il fatto che sia stato scritto da un ex rettore leccese, ma il fatto che abbia una copertina orribile.
Siamo da sempre avidi fruitori tanto di cronaca nera quanto di spy stories. Per noi, le rapine della banda della Toyota Aygo, fra San Cesario e Leverano e le avventure intramonasteriali di Adso da Melk, se proprio non sono una cosa sola, ecco, capita che occupino momenti relativamente contigui di una giornata di intensa lettura.
Dunque, per forza di cose, quando abbiamo avuto notizia dell'uscita de "Il segreto della miniatura", non abbiamo preso fra le mani il romanzo di Oronzo "Renzo" Limone, uscito per i tipi di Manni Editori (183 pp., 16 euro), scevri da qualunque forma di pregiudizio. Non lo avremmo fatto comunque se Renzo fosse stato semplicemente un accademico di alto rango, prima di diventare orditore di fiction dal fascino misterioso; e non lo abbiamo fatto - a maggior ragione - dal momento che lo stesso Renzo è stato un rettore "politico" dal potere formidabile, per molti eccessivo, su un grande Ateneo del Sud Italia: quello salentino. Che un anno fa Limone sia stato rinviato a giudizio per abuso d'ufficio e falso in atto pubblico, è una questione ancora altra, sulla quale non vogliamo farvi soffermare più del dovuto. Saremo dunque peggiori della "Gazzetta del Mezzogiorno" - che, invece, è riuscita a recensire lo stesso libro senza fare il minimo riferimento ai trascorsi giudiziari del suo Magnifico autore - esclusivamente nella fase di questa premessa: confessiamo di avere avuto dei pregiudizi di natura morale e di averli abbattuti.
"Il segreto della miniatura" non è solo un buon libro giallo firmato da un ex potente, col contorno dei soliti sospetti di averlo commissionato a un ghost writer sensibilissimo (perlomeno nel prenderci in giro fino al punto da disseminare certe ingenuità assolute nei dialoghi: "Scooby avrà la sua cuccia a casa mia"). C'è di più: la verità è basta leggerne qualche pagina perché ci si renda conto che sono alte, altissime le probabilità che sia un buon libro giallo realmente scritto da un ex potente, magari con qualche senso di colpa e un bel po' di Letteratura medievale alle spalle. Fra l'altro, nessun ghost writer riesce ad essere pagato per libri di meno di 600 pagine. Siamo insomma davvero davanti a una sorta di codicillo Da Vinci de' noantri, ma con meno voglia di fare "botteghino" e tanti meno anacronismi madornali.
Infatti, se mai questo volumetto agile ma, densissimo di avvenimenti, di cambi di location e superbe descrizioni (le famose "descrizioni" che i giovani lettori aborrono, contro i ben più attesi "dialoghi", qui oggetto di un tentativo di rivalutazione senza precedenti, da parte di uno scrittore ) dovesse passare alla storia della letteratura, sarebbe per il modo in cui l'autore si palesa nel suo personaggio, rigorosamente voce narrante.
Rispetto a Dan Brown, Renzo "Lemon" ha un grande punto di forza: non vuole assolutamente destare a tutti i costi l'attenzione del suo lettore, magari con una bella farcitura citazioni e riferimenti culturali scelti a tavolino fra i più "cliccabili" (la solita triade Vaticano, Massoneria, Occultismi vari). Tutt'altro: vuole davvero interessarlo. Lemon, come un vero professore privo di manie di protagonismo da PowerPoint, nel suo romanzo mette in gioco pochi ma buoni elementi e, per quanto possano essere effettivamente importanti le coordinate storico-culturali in cui li fissa, l'impressione di chi legge è perennemente che contino di più i collegamenti fra gli elementi a disposizione che gli elementi stessi, o i preti che si indignano.
Per questo, come dicevamo, quello che rende ancora più speciale questo libro, all'interno del suo particolarissimo genere (che corrisponde, all'ingrosso, ai libri scritti da ex potentati, con forte sospetto di avere un ghost writer, che poi si rivela essere l'ex potentati stessi), sono le sue descrizioni di ambiente. Come siano ancora più dialogiche dei dialoghi presenti: sempre psicologicamente carichissime, sempre le parti di un capitolo a fare la differenza. Le migliori, quelle degli atteggiamenti e delle fisime del bibliofilo colto nel suo sancta santorum: la sala lettura.
Il definitiva, la cosa che ci stupisce di più leggendo "Il segreto della miniatura" "tutto d'un fiato", non è tanto che Renzo Limone avrebbe potuto fare il ghost writer di un altro potente, e vivere felice così, rivoluzionando dall'interno un genere letterario saturo e decadente, come è quello del tentato best-seller italiano sulla falsariga dell'ultimo autore di strasuccesso anglofono (e ce n'è per ogni sottogenere, dagli epigoni lucani della J.K. Rowling di Harry Potter, fino ai wannabe Gianrico Carofiglio di Mondragone, considerando, oltre al "passato", anche Bari una "terra straniera").
Quello che ci fa tremare le mani, nel momento stesso in cui chiudiamo il semplice ma costoso paperback prodotto dai Manni, è che quello che veramente ucciderà questa prima edizione, dal punto di vista delle prospettive di vendita su suolo nazionale, non è certo il fatto che sia stato scritto da un ex rettore leccese, ma il fatto che abbia una copertina orribile.
4 ottobre 2010
Discorso fu "Leffico Famigliare"
In edicola con 20Centesimi
Tradizionalmente, due cose sanno fare bene gli italiani di sinistra, quando non godono di particolari immunità parlamentari, né di piccoli grandi imperi editoriali: fare satira sulla destra e fare satira su se stessi. Cioè: su quel che di buono resta della sinistra italiana. E' a questi italici eredi di Sileno e di Marsia che dobbiamo le poche risate che riusciamo a strappare al nostro cuore, di questi tempi difficili: non scordiamolo mai. Dio solo sa se esisteranno mai dei satiri italiani di destra; e se la definizione stessa di satiro potrà mai essere compatibile con una sola delle caratteristiche (o delle lacune) culturali, linguistiche, comportamentali della parte del nostro "Popolo" che propende per le "Libertà". E chissà se questa incapacità congenita di fare satira sia più uno dei limiti del Pdl nella corsa all'onnipotenza, o più uno dei motivi del suo "relativo" successo.
In ogni caso, resta da augurarsi, visti i brillanti risultati ottenuti, che lo stesso Dio non voglia mai che l'ingegno o il pane abbandonino mai i nostri satiri di sinistra - neppure nel momento della primaria più dolorosa, neppure al termine della diatriba a Ballarò più stravinta. Neppure, ci sia consentito dire, davanti al successo e alle ulteriori prospettive di un politico di sinistra vincente come Nichi Vendola è sempre stato. Nel caso di Vendola, la satira è sempre stata divisa. Chiunque è in grado di satirizzare, almeno col pensiero, un politico semplicemente brillante ma distante, aulico come è stato Massimo D'Alema. Molti sanno concepire sfottò sui temi sacri a Romano Prodi e alla bolognesità che ha rappresentato, accademica del sapere quanto del gusto, lenta ma inesorabile nel fornire le sue chiavi di lettura del mondo (se ce ne sono). Ma pochi, tranne giusto il geniale Checco Zalone dei primordi televisivi (su TeleNorba, e parliamo di ere politiche fa), sono riusciti a satireggiare efficacemente sul nostro attuale bimandatario governatore regionale. Fino ad ora.
Il perché di questo è molto semplice. Vendola, nonostante il suo enorme acume dialettico e la sua miracolosa capacità di raccogliere consensi, è sempre stato troppo apparentemente "debole" per essere oggetto di una satira davvero divertente. Ha troppi difetti di pronuncia, troppi tic verbali e stilistici, troppe anomalie politiche per poter essere colpito da un comico senza dare l'impressione - bene che andasse - di fare battute troppo facili o di sparare sulla Croce Fucsia.
Con il secondo successo alla regionali le cose hanno cominciato a cambiare. Ma era bastato l'annuncio della sua ricandidatura a far sì che programmi televisivi satirici di primo piano nazionale (vedi Maurizio Crozza) prendessero la dialettica vendoliana e la sottoponessero finalmente al vaglio dell'unico modo di fare critica e, al tempo stesso, di esprimere stima che i satiri conoscono: coglionare. Senza che detta dialettica, naturalmente, non solo non ne uscisse particolarmente intaccata, ma anzi fosse rafforzata nella sua straordinaria iconicità.
Quello che ha stravolto tutto è stato l'annuncio di Vendola a scendere in campo come possibile candidato premier alla prossime politiche. Ora non più solo i capocomici delle emittenti televisive libere, ma anche i più umili guitti di YouTube hanno cominciato a prendere di mira - con più o meno seguito, con più o meno bravura - l'eloquio vendoliano: sempre troppo forbito, troppo ansioso di essere apprezzato (come un scolaro bravissimo alle interrogazione, ma tanto desideroso di essere apprezzato anche a tavola, dai familiari). Ancora una volta, ma più di tutte le altre volte, questa satirizzazione ha significato, da una parte, visibilità; dall'altra, anche un certo minimo risentimento (soprattutto dei piccoli, soprattutto dei pugliesi, soprattutto dei puri) davanti al cambio di rotta dei progetti di Vendola per il suo futuro.
Chi è riuscito a mettere insieme tutte queste osservazioni e critiche più o meno velate meglio di tutti gli altri satiri è stato Paolo Cosseddu (popolino.splinder.com), uno strano sardo che, pare, risieda nientemeno che a Biella. Il suo blog - "Popolino", che riproduce il font del più famoso settimanale a fumetti per ragazzi - ospita da qualche giorno un post dedicato proprio a Vendola, dal titolo: "Leffico famigliare". Il tono è quello di un dialogo filosofico che ha per protagonisti Nichi, Fratello, Madre e Padre. Il pezzo fa centro perché descrive le difficoltà di Nichi bambino ad ottenere attenzioni e pietanze calde finanche da una madre che lo partorì "nel gelido addiaccio di una notte illuminata da una ftella folitaria"; mentre il fratello, più sintetico ed essenziale nel formulare le sue richieste, riesce a spuntarla su tutto. Dove fa ancora più centro, però, è nella componenete cattocomunistica del tutto: da quella "ftella", infatti, parte un discorso cristologico che culmina nell'immancabile "Chi fa la fpia non è figlio di Maria, non è figlio di Gefù e quando muore va laggiù" - "Laggiù dove?" - " A Brindifi".
Tradizionalmente, due cose sanno fare bene gli italiani di sinistra, quando non godono di particolari immunità parlamentari, né di piccoli grandi imperi editoriali: fare satira sulla destra e fare satira su se stessi. Cioè: su quel che di buono resta della sinistra italiana. E' a questi italici eredi di Sileno e di Marsia che dobbiamo le poche risate che riusciamo a strappare al nostro cuore, di questi tempi difficili: non scordiamolo mai. Dio solo sa se esisteranno mai dei satiri italiani di destra; e se la definizione stessa di satiro potrà mai essere compatibile con una sola delle caratteristiche (o delle lacune) culturali, linguistiche, comportamentali della parte del nostro "Popolo" che propende per le "Libertà". E chissà se questa incapacità congenita di fare satira sia più uno dei limiti del Pdl nella corsa all'onnipotenza, o più uno dei motivi del suo "relativo" successo.
In ogni caso, resta da augurarsi, visti i brillanti risultati ottenuti, che lo stesso Dio non voglia mai che l'ingegno o il pane abbandonino mai i nostri satiri di sinistra - neppure nel momento della primaria più dolorosa, neppure al termine della diatriba a Ballarò più stravinta. Neppure, ci sia consentito dire, davanti al successo e alle ulteriori prospettive di un politico di sinistra vincente come Nichi Vendola è sempre stato. Nel caso di Vendola, la satira è sempre stata divisa. Chiunque è in grado di satirizzare, almeno col pensiero, un politico semplicemente brillante ma distante, aulico come è stato Massimo D'Alema. Molti sanno concepire sfottò sui temi sacri a Romano Prodi e alla bolognesità che ha rappresentato, accademica del sapere quanto del gusto, lenta ma inesorabile nel fornire le sue chiavi di lettura del mondo (se ce ne sono). Ma pochi, tranne giusto il geniale Checco Zalone dei primordi televisivi (su TeleNorba, e parliamo di ere politiche fa), sono riusciti a satireggiare efficacemente sul nostro attuale bimandatario governatore regionale. Fino ad ora.
Il perché di questo è molto semplice. Vendola, nonostante il suo enorme acume dialettico e la sua miracolosa capacità di raccogliere consensi, è sempre stato troppo apparentemente "debole" per essere oggetto di una satira davvero divertente. Ha troppi difetti di pronuncia, troppi tic verbali e stilistici, troppe anomalie politiche per poter essere colpito da un comico senza dare l'impressione - bene che andasse - di fare battute troppo facili o di sparare sulla Croce Fucsia.
Con il secondo successo alla regionali le cose hanno cominciato a cambiare. Ma era bastato l'annuncio della sua ricandidatura a far sì che programmi televisivi satirici di primo piano nazionale (vedi Maurizio Crozza) prendessero la dialettica vendoliana e la sottoponessero finalmente al vaglio dell'unico modo di fare critica e, al tempo stesso, di esprimere stima che i satiri conoscono: coglionare. Senza che detta dialettica, naturalmente, non solo non ne uscisse particolarmente intaccata, ma anzi fosse rafforzata nella sua straordinaria iconicità.
Quello che ha stravolto tutto è stato l'annuncio di Vendola a scendere in campo come possibile candidato premier alla prossime politiche. Ora non più solo i capocomici delle emittenti televisive libere, ma anche i più umili guitti di YouTube hanno cominciato a prendere di mira - con più o meno seguito, con più o meno bravura - l'eloquio vendoliano: sempre troppo forbito, troppo ansioso di essere apprezzato (come un scolaro bravissimo alle interrogazione, ma tanto desideroso di essere apprezzato anche a tavola, dai familiari). Ancora una volta, ma più di tutte le altre volte, questa satirizzazione ha significato, da una parte, visibilità; dall'altra, anche un certo minimo risentimento (soprattutto dei piccoli, soprattutto dei pugliesi, soprattutto dei puri) davanti al cambio di rotta dei progetti di Vendola per il suo futuro.
Chi è riuscito a mettere insieme tutte queste osservazioni e critiche più o meno velate meglio di tutti gli altri satiri è stato Paolo Cosseddu (popolino.splinder.com), uno strano sardo che, pare, risieda nientemeno che a Biella. Il suo blog - "Popolino", che riproduce il font del più famoso settimanale a fumetti per ragazzi - ospita da qualche giorno un post dedicato proprio a Vendola, dal titolo: "Leffico famigliare". Il tono è quello di un dialogo filosofico che ha per protagonisti Nichi, Fratello, Madre e Padre. Il pezzo fa centro perché descrive le difficoltà di Nichi bambino ad ottenere attenzioni e pietanze calde finanche da una madre che lo partorì "nel gelido addiaccio di una notte illuminata da una ftella folitaria"; mentre il fratello, più sintetico ed essenziale nel formulare le sue richieste, riesce a spuntarla su tutto. Dove fa ancora più centro, però, è nella componenete cattocomunistica del tutto: da quella "ftella", infatti, parte un discorso cristologico che culmina nell'immancabile "Chi fa la fpia non è figlio di Maria, non è figlio di Gefù e quando muore va laggiù" - "Laggiù dove?" - " A Brindifi".
2 ottobre 2010
Quella rive gauche dietro le Officine Cantelmo
In edicola con 20Centesimi
Chi sostiene che nel destino della nuova sede delle Officine Cantelmo (inaugurata giovedì da Paolo Perrone e dal suo entusiasmo per le emeroteche) ci sia solo l'ennesimo caso alla Striscia la Notizia di sottoutilizzo di una costosa ristrutturazione pubblica, ecco, si sbaglia di grosso. Evidentemente, chi pensa di poter portare avanti argomentazioni del genere non è mai stato ubriaco di birra Gordon's doppio malto del Trumpet, il pub dai coperti più ambiti della zona. Oppure, non si è rifornito di culatelli stagionati presso la piccola, deliziosa salumo-panino-enoteca che dà sulla Chiesa Greca, ed è il primo biglietto da visita gastronomico che Lecce, timidamente, porge ai forestieri che decidano di fermarsi in uno dei Bed & Breakfast "alternativi con charme" della piazzetta.
Certo, i numeri e le immagini che i quotidiani salentini snocciolano su questo secondo spazio meritato da Alessandro Delli Noci e dalla sua equipe, sbalordiscono i più. La sola illuminazione è frutto dell'esperienza della ditta "Idealuce" di Franco Ingrosso (ricordato dal Quotidiano così, come se un architetto della luce di grido). Gli arredi sono della ditta Cubico di Galatina. Sic, come se fosse l'articolo "antico" di una puntata di "Ieri e Oggi" di Chiarella D'Ambrogio sul Corriere del Mezzogiorno. Si aggiunga una scultura "gigante" del maestro Bruno Maggio e il fatto che tutto questo è costato un milione e mezzo di euro, più altri 500.000 attesi, e si avrà un'idea delle proporzioni dell'operazione.
Forse, questi scettici hanno dalla loro l'essere passati da Corte dei Mesagnesi ieri pomeriggio, a dare un'occhiata al day after l'inaugurazione. Si sono imbattuti in porte e finestre sì sprangate, ma accuratamente sorvegliate da videocamere, curiose come vicine di casa paesane, ma hi-tech e ancora più instancabili osservatrici di quello che accade intorno. Quello che questi facinorosi forse non capiscono è che l'apertura di questo nuovo spazio consegna definitivamente ai leccesi qualcosa che è molto di più che un luogo di confronto di idee artistiche, culturali e musicali. Posto che mai, nel corso della lunga storia delle idee artistiche, culturali e musicali, sia stata necessaria una palazzina a due piani da un milione e mezzo di euro di sola ristrutturazione, perché queste fossero effettivamente confrontate. Quello che le Cantelmo 2 offrono ai leccesi, giovani o con giovani che siano, è un biglietto di seconda classe per un sogno: la consacrazione finale di una rive gauche leccese che possa contrastare con orgoglio la cosiddetta movida, ormai apertamente di centrodestra. Una rive droite in cui ormai non tutti si riconoscono, e che altri sinceramente non si possono proprio permettere.
Il futuro di questa parte di Lecce (che va dal tribunale al vecchio "Angiulinu") non è solo nei convegni di giovani avvocati che le Cantelmo 1 hanno saputo fidelizzare, fra una festa con Tony Rucola e un'altra. E neanche nei pur prestigiosi gadget personalizzati che l'UniSalentoStore, lo spaccio ufficiale del merchandising targato Università del Salento, propone, manco fossimo a Yale. Eppure, le due Cantelmo faranno sempre più convergere in questi incroci, in queste piazzette, e anche presso i pub e le vinerie che spuntano come brufoli in via Umberto I (un tempo di confine, ora apparentemente passata alla "gauche")
Dove un tempo era il piccolo grande impero immobiliare della "Mara" (storico travestito di polso salentino), una nicchia in crescita del popolo della notte leccese trascorre il suo tempo; divora le sue patate al forno da fame chimica; ci prova con ragazze vent'anni più giovani, in ricordo di una moglie che non esce più o che è scappata con un marketer del vino di Verona.
Al limite, questa sarà una rive gauche dotata di una struttura pubblica costosa e inutilizzata, ma sarà pure sempre un rive gauche. Del resto, da che mondo è mondo, le rive gauche sono dei bellissimi posti (nessun intellettuale medio, che sarà anche un intellettuale, ma non è mica scemo, ci andrebbe a stare, altrimenti) che però hanno qualcosa che non quadra, qualcosa che non funziona o che non funziona come dovrebbe funzionare, se fosse sulla rive droite. Qualcosa da cambiare. E cosa di meglio si può sperare di cambiare, di trasformare, dii ribaltare, rispetto a uno spazio che lascia definire una "Mediateca polivalente strutturata in tre macro aree"?.
Chi sostiene che nel destino della nuova sede delle Officine Cantelmo (inaugurata giovedì da Paolo Perrone e dal suo entusiasmo per le emeroteche) ci sia solo l'ennesimo caso alla Striscia la Notizia di sottoutilizzo di una costosa ristrutturazione pubblica, ecco, si sbaglia di grosso. Evidentemente, chi pensa di poter portare avanti argomentazioni del genere non è mai stato ubriaco di birra Gordon's doppio malto del Trumpet, il pub dai coperti più ambiti della zona. Oppure, non si è rifornito di culatelli stagionati presso la piccola, deliziosa salumo-panino-enoteca che dà sulla Chiesa Greca, ed è il primo biglietto da visita gastronomico che Lecce, timidamente, porge ai forestieri che decidano di fermarsi in uno dei Bed & Breakfast "alternativi con charme" della piazzetta.
Certo, i numeri e le immagini che i quotidiani salentini snocciolano su questo secondo spazio meritato da Alessandro Delli Noci e dalla sua equipe, sbalordiscono i più. La sola illuminazione è frutto dell'esperienza della ditta "Idealuce" di Franco Ingrosso (ricordato dal Quotidiano così, come se un architetto della luce di grido). Gli arredi sono della ditta Cubico di Galatina. Sic, come se fosse l'articolo "antico" di una puntata di "Ieri e Oggi" di Chiarella D'Ambrogio sul Corriere del Mezzogiorno. Si aggiunga una scultura "gigante" del maestro Bruno Maggio e il fatto che tutto questo è costato un milione e mezzo di euro, più altri 500.000 attesi, e si avrà un'idea delle proporzioni dell'operazione.
Forse, questi scettici hanno dalla loro l'essere passati da Corte dei Mesagnesi ieri pomeriggio, a dare un'occhiata al day after l'inaugurazione. Si sono imbattuti in porte e finestre sì sprangate, ma accuratamente sorvegliate da videocamere, curiose come vicine di casa paesane, ma hi-tech e ancora più instancabili osservatrici di quello che accade intorno. Quello che questi facinorosi forse non capiscono è che l'apertura di questo nuovo spazio consegna definitivamente ai leccesi qualcosa che è molto di più che un luogo di confronto di idee artistiche, culturali e musicali. Posto che mai, nel corso della lunga storia delle idee artistiche, culturali e musicali, sia stata necessaria una palazzina a due piani da un milione e mezzo di euro di sola ristrutturazione, perché queste fossero effettivamente confrontate. Quello che le Cantelmo 2 offrono ai leccesi, giovani o con giovani che siano, è un biglietto di seconda classe per un sogno: la consacrazione finale di una rive gauche leccese che possa contrastare con orgoglio la cosiddetta movida, ormai apertamente di centrodestra. Una rive droite in cui ormai non tutti si riconoscono, e che altri sinceramente non si possono proprio permettere.
Il futuro di questa parte di Lecce (che va dal tribunale al vecchio "Angiulinu") non è solo nei convegni di giovani avvocati che le Cantelmo 1 hanno saputo fidelizzare, fra una festa con Tony Rucola e un'altra. E neanche nei pur prestigiosi gadget personalizzati che l'UniSalentoStore, lo spaccio ufficiale del merchandising targato Università del Salento, propone, manco fossimo a Yale. Eppure, le due Cantelmo faranno sempre più convergere in questi incroci, in queste piazzette, e anche presso i pub e le vinerie che spuntano come brufoli in via Umberto I (un tempo di confine, ora apparentemente passata alla "gauche")
Dove un tempo era il piccolo grande impero immobiliare della "Mara" (storico travestito di polso salentino), una nicchia in crescita del popolo della notte leccese trascorre il suo tempo; divora le sue patate al forno da fame chimica; ci prova con ragazze vent'anni più giovani, in ricordo di una moglie che non esce più o che è scappata con un marketer del vino di Verona.
Al limite, questa sarà una rive gauche dotata di una struttura pubblica costosa e inutilizzata, ma sarà pure sempre un rive gauche. Del resto, da che mondo è mondo, le rive gauche sono dei bellissimi posti (nessun intellettuale medio, che sarà anche un intellettuale, ma non è mica scemo, ci andrebbe a stare, altrimenti) che però hanno qualcosa che non quadra, qualcosa che non funziona o che non funziona come dovrebbe funzionare, se fosse sulla rive droite. Qualcosa da cambiare. E cosa di meglio si può sperare di cambiare, di trasformare, dii ribaltare, rispetto a uno spazio che lascia definire una "Mediateca polivalente strutturata in tre macro aree"?.
Iscriviti a:
Post (Atom)