31 ottobre 2010

Cos'è davvero il Bunga Bunga

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Sono giorni di forte, intenso bunga bunga. Lo si avverte in Parlamento, dove non sembra si conosca miglior modo di annunciare l'esito di una votazione, quando va al contrario di quello che si sperava. Lo si apprende negli uffici dei commercialisti, ogni volta che un modello unico viene metaforicamente consegnato nell'altrettanto unico posto in cui procurerà il maggior dolore possibile al contribuente di turno. Lo sanno perfino negli spogliatoi dei migliori campetti sportivi leccesi, dove, giusto ieri, colti certamente dall'euforia di una vittoria a calcetto, e dallo spirito del tempo, è stato possibile osservare il fior fiore di professionisti agitare pelvicamente il proprio corpo nudo e affaticato, quasi sfidandosi l'un l'altro a singolar tenzone: "Bunga Bunga", in tutti e tre i casi, era il grido comune. Dapprima è cominciato in sordina, questo rumore ora assordante, come un tam tam (certo, parente stretto del bunga bunga; ma più diretto, frontale, meno subdolo e molto meno retroattivo); ma un tam che ha avuto successo: un tam tam che ha saputo brillantemente valicare i confini del suo villaggio di origine (se non africano, almeno brianzolo), per fare il suo trionfale ingresso  nell'immaginario degli scemi del villaggio globale. Che un altro fatto sia indice del successo che questa iterazione (due sole volte, la massima efficacia col minimo sforzo: parola d'ordine, ottimizzare) di suoni e di suggestioni sta avendo nel nostro paese, da quando è stato associato al personal branding involontario del nostro Presidente del Consiglio (in carica). Giusto ieri, perfino uno dei giornali attualmente meglio scritti d'Italia - la Stampa di Torino - nelle sole prime 3 pagine della sua edizione nazionale cita già in due fondamentali occasioni il bunghismo. La prima è opera del magistero umoristico di Massimo Gramellini che, con straordinaria presenza di spirito associa le esagerazioni che, anni fa, occupandosi di riportare dalla Napoli di Maradona le imprese tutt'altro che tecnicamente sportive del fuoriclasse argentino, ipotizzava che nessun altro meglio di Diego potesse impersonale l'aberrazione dei desideri, delle aspettative e dei sogno dell'italiano medio come lui. L'ammissione di essersi sbagliato è un colpo di scena giornalistico di una classe ineguagliabile.
Ma cosa è davvero il Bunga Bunga? Continuamo a chiedercelo ancora, anche adesso che abbiamo chiarito sufficientemente chi ci sia dietro l'operazione e tutti i giri di metafore e di applicazioni nella vita pratica che ne derivano. Non basta neanche Urban Dictionary, una vera e propria sorta di Accademia della Crusca per tutto ciò che sfugge ai dizionari di carta ed è colto perfettamente da quella particolare versione della "vita di strada" che è internet. Il fatto che questa fonte sia di respiro ampio e internazionale, già la dice lunga sulla straordinaria bravura che ha avuto quel grande brand manager di se stesso. Recita Urban Dictionary: "Bunga-bunga: stupro di gruppo anale e selvaggiamente brutale. Leggendaria punizione per la violazione di domicilio presso tribù africane non accreditate".
Il bunga bunga è fra noi, è ovunque. Il bunga bunga e nell'essere falso e cortese che ci dorme affianco, o che ci lavora alle spalle, nell'organigramma aziendale che ci compete. Bunga a bunga lavorativi, bunga a bunga solo ricreativi. Per uso personale e per smercio clandestino. Ma in realtà, per dirla tutta, forse il bunga bunga, è semplicemente la serendipity delle sòle prese col sorriso. Come la serendipity è la cosa non cercata che ci rende felici quando la troviamo, pur non cercandola, il bunga è la fregatura che ci dà piacere anche se ce l'aspettavamo perfettamente.
Due semplici paroline, essenziali come tutte quelle di derivazione onomatopeica, la cui ripetizione è già un ritmo, e non ancora un amplesso. Primo bunga: una promessa licenziosa di tribalità contemporanea, magari anche ritrovata con indossa una cravatta, una di quelle buona, una Marinella: mai abbastanza celebrato sostituto del pene italico. Secondo bunga: la promessa è mantenuta, il contatto c'è stato e cominciano le gioie e i dolori, bipartiti con saggezza e destrezza, fra bungatore e bungato, in parti uguali ma opposte: ogni onore e gloria al primo, tutta la sapida e quasi invocata umiliazione al secondo.
D'altronde, è sempre stato così e sempre sarà. Perché le regole della contemporaneità, del mercato (e, nella fattispecie, del mercato della politica), che conoscono vincitori
e vinti esattamente come un tempo era per i cacciatori più arditi e per le femmine che solo a loro era dato di procurarsi, devono differire da quelle della tribù?
Come sempre, non c'è miglior modo di mantenere intatta una tradizione che quello di trasformarla, attualizzarla, adattarla alle proprie esigenze. E' il grande vantaggio che hanno i classici sui moderni: si possono leggere sempre, e quindi sono sempre più contemporanei dei contemporanei.

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